Le

Dettagli

© Mirta Drake 2018

 

Finalmente la pausa pranzo. Un'ora e mezza tutta per me, dopo una mattinata frenetica in cui mi sono dedicata solo al lavoro: anima, corpo e imprecazioni! Comunico a Lila, la mia segretaria ultrasessantenne, di non passarmi nessuna chiamata e spengo il cellulare. Ma non illudetevi: non sono un'affermata donna in carriera, bensì solo una disperata, che ormai ha quasi trent'anni (un quasi molto, molto sottile) ed è stata assunta dal padre con un contratto a termine per un anno, mentre lui è all'estero. E solo perché sono praticamente l'unica in grado di interpretare i suoi appunti in stenografia che manda ogni giorno via e-mail. Nemmeno lui mi ha fatto un contratto a tempo indeterminato. Si vede che tutti gli uomini mi considerano solo di passaggio, papà compreso! E comunque odio questo lavoro. Quando mio padre rientrerà dal viaggio di lavoro in Belize, probabilmente tornerò a fare la personal shopper, cosa che adoro perché, grazie alla mia attitudine per ogni più piccolo particolare, sono molto brava. (Anche se guadagno pochissimo.)

Oggi mi sento particolarmente depressa, assediata dalle scartoffie e sola come un verme (solitario)! Ultimamente, penso che finirò per diventare una vecchia zitella, spiegazzata nell'anima come una banconota da cinque euro e sempre più nervosa. Ormai sono quattro mesi e tre settimane che la mia storia d'amore più importante è finita. Non che io conti i giorni... è che faccio le croci (ma con un cuore spezzato al centro) sul calendario da tavolo sulla scrivania, tutto qui. Giusto per passare il tempo...

Mi distendo sul divanetto color cenere, di alcantara, del mio ufficio temporaneo. Ho bisogno di staccare la spina, di allontanarmi dalla realtà che ogni giorno mi pare più grigia, avvilente e noiosa.

Ho un metodo perfetto per farlo: chiudo gli occhi e mi perdo in fantasie a sfondo più o meno sessuale sul mio ex, Thomas. Sì, perché anche se mi ha scaricata da un pezzo, credo di amarlo ancora – il che è triste e patetico, me ne rendo conto. O magari può essere che io non abbia altri uomini su cui fantasticare – che è ancora più grave, a ben pensarci, e perfino vagamente tragico. Ma non dipende da me, bensì dalla mia ossessione: i dettagli. E questa ossessione mi perseguita anche nei sogni a occhi aperti! Vi spiego: non è che posso fantasticare su un attore figo e famoso qualsiasi, perché se immagino la scena a modo mio, alla fine mi si smonta tutto.

Esempio di una fantasticheria: io arrivo in un locale alla moda, splendida e affascinante, con i capelli che mi stanno a meraviglia – non capita mai perché la mia capigliatura perennemente floscia, anche acconciata, somiglia più al delirio di un pazzo che al lavoro di una pettinatrice... ma nelle mie fantasie diventa folta, fluente e “glossy”! Dicevo, entro nel locale avvolta in una nuvola di profumo costoso (la fantasia è gratis e posso scialacquare) con un abito rosso veneziano da urlo. Ha le spalline sottili e un bustier aderente impreziosito da una straordinaria decorazione di cristalli Swarovski. Lo chiffon ne copre la parte inferiore, a coda di sirena, esaltando l'aspetto morbido e vaporoso della gonna che, sul davanti, arriva al ginocchio. La cerniera sulla schiena promette una comoda vestibilità... (e soprattutto svestibilità!!) Ho un paio di sandali in tinta, con una spruzzata di cristalli Swarowski sul cinturino, così anche i miei piedi luccicano. Adoro ciò che luccica, tipo gazza ladra, insomma. E, ovviamente, sono così in forma, ma così in forma, che anche le mie forme sono in forma... e sfavillanti!

A un tavolino appartato del locale del quale vi risparmierò i particolari (anche se li ho immaginati tutti) c'è Channing Tatum a bocca aperta – v. abito di cui sopra – che aspetta: ha udito lo scampanellio quando ho aperto la porta del locale e non mi ha più staccato gli occhi di dosso. Fighissimo come lo era nel primo Magic Mike. È un appuntamento al buio ( be', più o meno, visto che luccico come una sfera da discoteca) organizzato da un'amica che abbiamo comune.

Quando lo raggiungo, lui si alza. Tutte le altre donne presenti si sdilinquiscono, se lo mangiano con gli occhi e crepano d'invidia. Lui mi bacia una mano e mi sento rabbrividire di piacere. (Qua inizio a sudare come un porco e sento le ascelle pezzarsi, anche se è solo una fantasia, ma sarà colpa dell'abito, perché dovevo immaginarlo di cotone e non in viscosa e chiffon. Pazienza, la prossima volta starò più attenta, ora non posso inventarne un altro perché c'è Channing Tatum che mi fissa e so che sta pensando a quando andremo a letto, ovvero fra poco. Lo vedo da come mi guarda: ha l'occhio libidinoso e si è morsicato un labbro come “Anestesia” Steel... e a me prudono le mutande. (Le avrò pensate sintetiche, maledizione!) Lui mi sposta la sedia e io mi accomodo in un tripudio di profumo e chiffon (più ascelle semipezzate e imbarazzante prurito intimo).

Ed è a questo punto che salta fuori l'inghippo, perché io sono troppo precisa nel pensare ai dettagli. (Lo avevate notato?) E questo è anche il motivo per cui non riesco mai a concludere un bel niente, dato che la mia pausa pranzo, nel frattempo, termina. Channing mi parla in inglese, lingua che mastico - ma sarebbe meglio dire sputacchio – a malapena, quindi le sue parole suonano più o meno così: «Au du dù. Iu luk undaerful, oooh, iù have the ascella pezzata! It's a mast!»

E io non capisco nulla se non “ascella pezzata”, mi attapiro e, mortificata, rispondo tipo: «tenkiù». Come posso continuare la fantasia, se non capisco cosa mi dice? Potrei sorridere come una cretina e sperare che a letto sia uno che sta zitto, ma a me non piace fare tutto in silenzio e se ti devi adattare alla situazione, allora che razza di fantasia è? Comunque, non posso andare a letto con uno appena conosciuto, senza scambiarci qualche parola degna di essere chiamata tale. Senza un discorso per conoscerci, per sapere almeno cosa prova a essere un sex symbol e dirgli che in una vecchia, vecchissima fantasia di quando facevo le superiori lo ero anche io!

Qui mi si smonta tutto, come vi dicevo, e va a finire che mi viene voglia di cercare il telecomando per mettere i sottotitoli. Ma ve lo immaginate come sarebbe andare a letto con uno sottotitolato? Quando ti dice “Ai uanna fak iù”, sbottonandosi i pantaloni, tu credi che voglia mandarti un fax (magari ha la bozza nei pantaloni) e per capire le sue vere intenzioni devi leggere sotto e magari metterti gli occhiali... No dai, non si può! Troppo surreale. Cioè, non che sognare di avere un appuntamento con lui – o avere i capelli perfetti, o essere in forma smagliante – non lo sia, però qua si va troppo sul fantasy, si perde quel briciolo di credibilità che mi stuzzica e poi mi viene da ridere. Per giunta, non posso spostare le mie mire su un altro manzo con cui potrei più facilmente comunicare... non ci sono attori italiani che mi attizzano, al momento.

Ecco perché fantastico su Thomas e nella mia mente sembrano fluire situazioni a go-go, ogni giorno differenti, ormai ho anche una certa dimestichezza. E forse dipende anche dal terribile fatto che sono ancora un po' innamorata di lui, ma nulla di serio, be' quasi. Prima o poi mi passerà, solo che ora non è ancora “poi”. So che mi sono dilungata nella spiegazione, però era per farvi capire le problematiche che mi ritrovo a dover affrontare solo per riuscire a rilassarmi.

È bello fantasticare su Thomas, che conosco bene. Posso fargli dire quel che mi pare – in italiano! – e mi impegno a dare un certo non so ché di veridicità ai dialoghi. Non sono buttati lì a caso: mi baso sulla mia esperienza. Sì, lo ammetto, lui è sempre stato il mio ideale di uomo, fisicamente e caratterialmente – tranne quando faceva lo stronzo, ma suppongo che io sia attratta da tali stronzi, escluso Channing: non saprei dire se sia stronzo o meno! Thomas è alto, muscoloso, con la mascella volitiva, lo sguardo tenebroso i capelli folti e color Nutella! Chi non ama la Nutella!?

Ora mi pregusto lo scenario, siamo già a letto. Sì, con lui posso tralasciare i dettagli pezzati e imbarazzantissimerrimi di un primo appuntamento con l'abito sbagliato, e le mutande che provocano prurito. Siamo stati insieme per un bel pezzo, non è disdicevole!

La luce ambrata delle candele disegna arabeschi sui nostri corpi seminudi. (È la mia fantasia e ci metto tutti gli arabeschi che voglio!) Thomas, con gli occhi che ardono di passione, mi accarezza un fianco e risale con la mano sotto la lingerie fino a farmi gemere d'impazienza. Anche adesso mi sembra di avvertire il suo tocco, la sensazione della sua pelle a contatto con la mia e rabbrividisco di piacere, stiracchiandomi sul divano di alcantara dell'ufficio, a occhi rigorosamente serrati.

«Adoro quando ti metti queste cose sexy!» mormora lui, con la voce arrochita che mi fa sempre andare su di giri.

«Me lo hai regalato tu, questo completino» sussurro già persa nell'idillio provocato dalla scena che sto immaginando. Ci tengo a precisare che è un reggiseno viola, in pizzo piquet con mutandine abbinate e una sottoveste in tinta. Il tessuto semitrasparente mi accarezza il corpo e gli strass fra le coppe lo illuminano (anche di speranza!) Ha un'apertura intrigante sulla schiena e veste la mia femminilità di passione. (Mi sono depilata alla perfezione, ho messo anche la crema idratante, profumata con i glitter... Uffa, la mia precisione mi porta sempre fuori strada e mi distraggo, lasciamo perdere... se ci riesco!)

Thomas indossa boxer neri, in morbida microfibra elasticizzata con le finiture azzurro polvere... Cavolo, gli stano così bene che mi manca il fiato. (Ok, non riesco a lasciar perdere, accidenti! Accidenti a quanto gli stanno bene e anche alla mia maledettissima scrupolosità per i dettagli! Gli stanno così bene che ora glieli tolgo, così impara!)

Lui ridacchia. «Non è vero, non ti ho mai fatto regali di questo genere. Lo sai bene. Ho sempre avuto paura di sbagliare le misure, con le tettone che ti ritrovi!»

Sgrano gli occhi e lo allontano (accantonando l'idea di privarlo dell'intimo).

«Ehi! Come ti permetti? Questa è la mia fantasia e comando io!»

«Non farmi dire scempiaggini, allora! Dov'è finita la tua fissa per ogni insignificante particolare?»

«Guarda che mi hai mollata proprio per quella!»

«Lo so, ma aveva qualcosa di affascinate, ti rendeva speciale, Vittoria.»

«Questo lo dici solo perché sei nella mia fantasia, cretino!»

Lui solleva le mani e ridacchia. «Ovviamente!»

Sbuffo e mi tiro virtualmente le lenzuola fino al mento, coprendo il completino, gli arabeschi ambrati e la mia pelle glitterata e umiliata.

«Ma sei uno stronzo anche quando ti immagino!»

«E allora non immaginarmi...»

«Non ci riesco, uffa!» brontolo avvilita.

Lui non si è coperto e – sempre per via della mia fervida immaginazione – la sua “eccitazione”, blandamente mimetizzata dalla morbida microfibra di cui non l'ho privato, è ancora più evidente di quanto lo fosse nella realtà: imperturbabile, spietata, che mi fa ribollire il sangue e venire voglia di dargli ragione pur di...

«Ehi, bugiarda! Guarda che ero messo bene anche “nella realtà”... Forse hai i ricordi un po' annebbiati.»

«Tu mi hai dato della tettona e mi hai detto che non mi facevi mai regali simili, offendendomi. Ben ti sta!»

«Come sempre sei vendicativa e anche un po' petulante, Vittoria.»

(Okay, la voglia di dargli ragione pur di... è passata del tutto, adesso.)

«Non sono mai stata vendicativa e nemmeno petulante!» strillo alzandomi in piedi di scatto. Mi trascino appresso le lenzuola di seta nera, con i bordi in pizzo viola, che alla luce delle candele sprigionano riflessi ipnotici...

«E pure un po' isterica, oserei dire» continua lui interrompendo il filo delle mie fantasticherie tessili. «Dai, torna a letto. Non ti rendi conto che le tue immaginarie sessioni erotiche con me non si concludono mai perché ti perdi sempre in dettagli inutili? Un po' come è accaduto nel nostro rapporto.»

Adesso sono furibonda, ho lo sguardo offuscato dall'ira, altroché riflessi ipnotici! «Succede perché tu... sei un bastardo!»

«Lo sono perché tu mi immagini così, e perché mi adoravi così, tesoro.»

«Adorare è una parola grossa.»

«L'hai pensata tu quella frase, ci tengo a ricordarti che sono solo nella tua testa» mi fa presente Thomas, passandosi drammaticamente una mano nei capelli color Nutella. «Tra l'altro, io non avrei mai detto “sessione erotica”, avrei utilizzato un vocabolo più volgare, non trovi?» Sorride con aria sibillina. «O magari uno più romantico... chi lo sa?»

«Eh, certo, posso solo immaginarti dal momento che ora stai con quella modella filiforme e antipatica. Una modella, tsk! Scommetto che a lei regali completi intimi di pizzo come se non ci fosse un domani. (Magari verde smeraldo, con ricamini a fiori in una nuance più chiara, tendente al lime). Se una porta la seconda – a essere generosi, eh – è tutto più facile!»

«Ma un po' meno divertente, per me» ribatte lui con scioltezza, quasi fosse ovvio.

Il cuore mi rimbomba nelle orecchie. «Sul serio?»

Thomas sorride e mi strizza l'occhio. «Con te tutto era più divertente, perché ti amavo sul serio e, fra l'altro, le tettone avevano un ruolo preponderante nella mia idea di divertimento.»

Mi sciolgo. «Davvero?» domando di nuovo come una stupida, abbassando un po' il lenzuolo di seta nera, bordato di lussurioso pizzo viola che ho visto in vendita on line alla modica cifra di 259 euro e novanta, perché c'erano gli sconti, ma non credo sia pura seta. Sì, quasi quasi dopo le ordino, quelle lenzuola, perché non si sa mai...

«Ovviamente no» dice lui, stringendosi nelle spalle. «Con te tutto era difficilissimo e complicato, però questa è la tua testa e ogni tanto mi fai dire delle minchiate, non ci posso fare nulla.»

Che insolente! Color merda. Ha i capelli color merda, non color Nutella, devo ricordarmelo!

«Sai una cosa?»

«Cosa?» replica lui un po' scazzato, sollevando un sopracciglio, come se sopportarmi fosse un flagello incommensurabile. (Magari lo era veramente. Oh santocielissimo, sono così noiosa?!)

«Questa è l'ultima volta che mi perdo a sognarti. Tu mi hai mollato nella vita vera e io ti scarico qua!» quasi urlo gustandomi l'attimo di silenzio che segue.

«Giura!» (Sta sghignazzando, adesso, l'infido!)

«Ti odio, non ti rivolgerò mai più la parola, o un pensiero o una... ehm... fantasia erotica, ecco!»

«Uhhh, che disdetta. E chissà chi dei due ci perde!»

Ma perché mai mi sono innamorata di uno così antipatico?! Sarà mica per via di come gli stavano quei boxer in morbida microfibra? In questo momento è l'unica spiegazione plausibile. Ed è degradante.

Il suono del telefono mi riporta alla realtà. Mi alzo dal divanetto e vado alla scrivania. La pausa pranzo è finita da un pezzo e io sono più stressata di prima.

Afferro il ricevitore. «Lila» mormoro ancora stralunata. «Le avevo chiesto di non passarmi chiamate...»

La mia segretaria si schiarisce la voce. «Mi scusi, signorina Baldecchi, ma al telefono c'è il suo... ehm, ex-ragazzo, o ex-fidanzato, il signor Thomas Neri. Pensavo che...»

Sobbalzo. Perché mai dovrebbe chiamarmi?

E soprattutto subito dopo che ho indugiato in torbide (almeno nelle intenzioni) fantasie a sfondo sessuale su di lui... Be', è anche vero che lo faccio ogni giorno, quindi uno valeva l'altro.

«Ah, capisco. Ma... non le avevo detto espressamente di non passarmelo mai più, anche in caso avesse chiamato in lacrime, dicendo che era in punto di morte, sull'orlo di un precipizio o roba simile?»

«No, non mi risulta» comunica lei in tono impersonale.

(Devo averlo immaginato, dannazione!) Arrossisco fino alla radice dei miei capelli castani, ma con sfumature più chiare che tendono al rame.

«Be', non me lo aveva mai più passato da quando... ehm, ci siamo lasciati, quindi credevo di averglielo detto.»

«Eh, ma lui non aveva mai più chiamato...» Sembra scocciata, adesso, e vagamente divertita. Io avvampo ancora di più. Questa donna è proprio una spina nel fianco.

«Va bene, me lo passi» dico cercando di darmi un tono mentre, dentro di me, tutto è un groviglio di lenzuola, candele, arabeschi, seta (ma non pura) morbida microfibra, emozioni vergognose e completi intimi che non ho mai avuto.

«Pronto?»

«Ciao, Vittoria. Ho chiamato in ufficio perché credo tu abbia il cellulare spento... stavi dormicchiando?» Basta la sua voce a farmi pezzare le ascelle come fossi a cena con Channing Tatum. Meno male che indosso una camicetta nera: mimetizzerà gli aloni sudaioli per il resto della giornata. L'ho abbinata a una gonna glicine e scarpe nere con plateau, ma con il tacco nella stessa tonalità della gonna, così, per dire.

«No, no. L'avevo spento perché ero in... riunione! Dimmi.» Devo sembrare distaccata, distaccatissima e impegnatissima. Ha i capelli color merda ed è insopportabile anche nelle mie fantasie, devo tenerlo a mente!

«No, niente, volevo solo sentirti. Ti stavo pensando e...»

Lo interrompo subito. «Veramente?» Altroché distaccata, porca pupazza, sembro ancora innamoratissima e pendo dalle sue labbra, che ricordo così morbide e sensuali da farmi lampeggiare le ovaie come l'insegna di un night club.

«Sì. Sai, alla fine ho chiuso con Gabrielle. Non era la donna per me... era stranamente poco attenta ai dettagli...» Sta ridacchiando, ne sono sicura al duemila per cento!

«Scommetto che il verde smeraldo non le donava.» Mi tappo la bocca con un mano, come ho potuto lasciarmelo sfuggire? La fantasia sta prendendo il sopravvento sulla realtà!

«Come?»

Deglutisco. «No, niente, lascia perdere. Quindi... vi siete lasciati?» indago già immaginando di raccontare tutto alla mia amica Ilaria (quella che nel mondo dell'impossibile avrebbe organizzato l'appuntamento con l'incomprensibile Channing). Infarcirei la notizia di dettagli talmente inutili che sbadiglierebbe dall'inizio alla fine, però.

«Già.»

«E perché me lo stai dicendo?»

Sta a vedere che anche lui non ha fatto altro che pensare a me, magari in modo meno particolareggiato, ma non fa niente, è un dettaglio inutile.

«Volevo invitarti a cena» dice di colpo, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Oh, per la miseria più misera! Copro il ricevitore con una mano e saltello in giro sui tacchi glicine, aggrovigliandomi nel filo del telefono. A cena!? A cena significa che ho una possibilità... perché se fosse solo per fare due chiacchiere avrebbe detto “per un caffè”, lo conosco bene!

«Stai saltellando come fai sempre quando sei felice?» mi domanda serio.

Mi paralizzo all'istante. «No, figurati. Come ti viene in mente? Mi era caduta la pinzatrice!» Mi districo dal filo e cerco di riguadagnare il controllo di corpo e sinapsi cerebrali.

«Non può essere stata solo una pinzatrice. Hai una mandria di bufali in ufficio?» Ridacchia ancora.

«Non cambiare argomento. Vuoi invitarmi a cena perché ora sei solo, eh?» Bastardo senza gloria!

«No, perché mi manchi da morire, che è un po' anche il motivo per cui ho mollato Gabrielle.» Sembra sincero. Sincero e vulnerabile. Non è mai stato bravo a esternare i sentimenti, ma io lo ero a scovarli tra le sue parole.

Uhm... Non è che sto immaginando anche questo dialogo? Non può essere vero... queste cose non succedono nella vita vera. O no?

«Sul serio?» Mi sento una stupida, la più stupida delle donne con troppa fantasia e pochissimo orgoglio. Ma sono una stupida felice, ed è difficile non saltellare (di nuovo).

«Ne parliamo a cena?»

«Sì, ma... in quale ristorante? Per sapere come vestirmi. Sai devo decidere se mettere quell'abito nero, elegante con...»

«Oh, Vittoria... »

Sì, devo darmi una regolata. Devo smetterla di fare così! Devo piantarla di dare troppo peso ai dettagli. Chissenefrega!

«Okay, va bene dove vuoi tu, Thomas. Facciamo per le otto?»

«Perfetto.»

Ho lo stomaco imbizzarrito e il cuore che sta facendo gli straordinari, pagati in nero.

Chiudo la chiamata, mi levo le scarpe e saltello come voglio, pensando che ora ordinerò quelle lenzuola perché ho la sensazione che mi serviranno. Non fa niente se non sono di seta pura.

Non sento nemmeno Lila bussare, quindi me la ritrovo davanti all'improvviso. Sta trattenendo una risata e la sua espressione, solitamente arcigna, è del tutto diversa. Sembra divertita, sbigottita e un po' intenerita.

«È per tenermi in forma» le dico bloccandomi per poi risistemarmi la camicetta

Lei annuisce. «Credo abbia dato i suoi frutti... Com'è che si fa a saltellare così? Voglio provare anche io.»

«Veramente?»

«No, signorina Baldecchi, stavo scherzando. Ha delle pratiche da firmare» dice sventolandomi davanti alcuni fogli. È tornata superseria, uffa!

Spero non racconti troppo a mio padre, quando tornerà, oppure lui mi toglierà il saluto per un mese, come minimo. E non mi assumerà mai più, neanche a tempo indeterminatissimo.

«Oh, okay, certo.» Mi dirigo alla scrivania (ancora scalza) per leggere e firmare un documento via l'altro.

Quando Lila esce, sono ancora sottosopra. Ripenso con calma alla telefonata di Thomas. Non è che... mi sono immaginata tutto? Oppure – ancora peggio – lui non ha alcuna intenzione di tornare insieme a me e voleva solo vedere se abboccavo per divertirsi un po', forse solo per una sera? Magari perché Gabrielle l'ha mollato dopo essersi accorta che ha messo su un po' di pancetta? Lo so perché controllo il suo profilo Facebook ogni sera e c'era una foto in cui...

No. Non devo iniziare a fantasticare su cose improbabili. Il suo tono era inequivocabile. Devo svegliarmi! Non fa niente se non saprò cosa indossare, né cosa accadrà. Non fa niente anche per la pancetta, né per i boxer in morbida microfibra che vorrei comprargli (di una taglia più grande, magari). Non conta nulla se sembrerò una stupida che pende dalle sue labbra, perché lui... mi ama. Ama anche i miei difetti. E io lo amo. Tutte le altre cose... sono soltanto inutili dettagli.

Spero di riuscire a dare meno peso ai dettagli, in futuro.

Guardo fuori dalla finestra, sorreggendomi la testa con una mano e chiamo la mia amica Ilaria, giocherellando con il timbro della ditta. Lo faccio spesso quando sono al telefono e va sempre a finire che mi sporco le dita come una bambina, ma non riesco a farne a meno.

«Pronto?»

«Ciao, Ilaria! Ho delle novità pazzesche: partiamo dalle lenzuola di raso nero, con le rifiniture in pizzo viola, che ho visto su...»


© Mirta Drake 2018

 

 

Le margherite sui vetri

 

«Questo monolocale è perfetto per lei» dice l'agente immobiliare scrutandomi. È un bell'uomo, ma io non lo guardo neanche in faccia: i miei occhi scorrono sulle pareti un po' scrostate, sul bagno che è un bugigattolo e sull'arredamento di fortuna. Del resto è tutto quello che posso permettermi, al momento. La mia casa precedente non era certo una reggia, ma aveva una bella sala da pranzo, un salotto di tutto rispetto, una cucina spaziosa... Max e io avevamo scelto insieme tutto quanto, dal colore della carta da parati, a quello delle tende, fino al più piccolo dettaglio, come quegli stupidi asciugamani personalizzati che ancora mi fanno venire da piangere ogni volta che ci penso. Lilla e bianchi, con i nostri nomi ricamati sopra.

Le mie amiche dicono che la parte più brutta del divorzio sia il matrimonio che lo precede. Mia madre è convinta che la parte più triste riguardi lo spartirsi le cose che un tempo erano appartenute a qualcuno che si faceva chiamare “noi”. Mia sorella, invece, sostiene che il momento peggiore sia il giorno in cui metti la firma in fondo a quel documento che sancisce un rimedio all'errore che quei due che si spacciavano per “noi”, hanno commesso.

Io non so chi di loro abbia ragione, ma al momento la parte peggiore mi pare quella di cercarmi una nuova casa. Una casa in cui vivrò da sola e vorrei aggiungere al contempo finalmente e anche purtroppo. Forse finaltroppo.

Sì, lo so: sono un po' confusa.

È che anche se decidi di divorziare – e sai che è la cosa giusta da fare – resta sempre una piccola parte di te ancorata al ricordo di quei due che una volta erano un noi; vedi ancora il loro riflesso nelle vetrine, quando esci. La cosa più devastante è che, quando la rabbia svanisce e il rancore si dissipa, ti tornano in mente i ricordi migliori. I ricordi sono bastardi: non li puoi sempre scegliere. Basta un profumo, una parola, la pubblicità di un film e loro arrivano. Sono lì, non fanno che scorrere davanti ai tuoi occhi. Vai a sapere come decidono di tormentarti. Sono un po' come i numeri del superenalotto: sai bene quali vorresti che uscissero, sono facili, sono solo numeri. Però poi ti toccano sempre quelli sbagliati. Un po' come mi è successo con gli uomini.

Mi tergo fugacemente una lacrima con il dorso di una mano sperando che l'agente immobiliare non se ne accorga.

«Tutto bene signora?»

Beccata!

«Certo, deve essere lo smog... non ci sono abituata.»

Sì, certo, va tutto benissimo! Mi devo trasferire a Milano perché è la città dove ho trovato uno straccio di lavoro e non posso restare nel negozio del mio ex marito insieme a lui, però qui non conosco nessuno; ho sempre vissuto solo in un paesino e tutti i miei amici sono laggiù. Sono praticamente un'estranea fra estranei. Sta a vedere che sono anche esaurita perché mi viene da piangere ogni cinque minuti! Ho trentotto anni e mi pare di averne più di mia zia Esmeralda, l'ottuagenaria – che ora ha una vita sociale migliore della mia, fra l'altro. Mi sento esausta. E mi scoccia che questo tizio mi guardi così. Cosa guardi? Ti sembro un caso umano? Fino a qualche mese fa ero più carina, sai? Mi vestivo bene, curavo il mio aspetto e dicevano che ero una bella donna. Se vuoi ti faccio vedere qualche selfie, ho le prove! Invece ora non faccio che corrugare la fronte e probabilmente sembro uno shar-pei incazzato, sola come un cane, appunto. Uhm... ora che ci penso, forse non ero poi tanto bella da impedire a Max di trovarsene una più giovane. È un punto su cui ho sempre evitato di soffermarmi e di sicuro non lo farò adesso!

Merda, un'altra lacrima! Mi ci sono soffermata già fin troppo! A furia di piangere ci si può disidratare? Non è per lui, quell'infedele, è per... per quel noi.

«M-Mi perdoni, se le sembro strana» balbetto sentendomi una perfetta idiota. «È che sto divorziando... È tutto così difficile.»

Lui annuisce comprensivo. Starà fingendo? Chissà quante gliene capitano di stramboidi simili, con il lavoro che fa.

«L'appartamento è alquanto intimo, ma sono sicuro che con un tocco femminile potrebbe avere delle buone potenzialità» spiega continuando a guardarmi. Deve essere una frase che propina a tutte. Accenna anche un sorriso, per un istante mi ricorda qualcosa che poi mi sfugge. Niente, questo numero non vuole uscire, l'ombra di quella sorta di ricordo si dilegua e lui torna a essere un estraneo. Forse era solo un dèjà vu.

«Sì. Io... penso che vada bene» dico piano, imbarazzata per averlo fissato troppo intensamente.

«Forse il panorama non è un granché» continua lui con una strana luce negli occhi. «Però, guardi che è una bella zona, non è malfamata. Vede quel palazzo lì di fronte?»

Annuisco. Certo che lo vedo, si vede solo quello, c'è appena un vicoletto a separarlo dalla mia finestra, non si scorge nemmeno uno stralcio di cielo, che ne so, due nuvole, andrebbero bene anche grigie, visto l'andazzo. Invece ci sono solo asfalto e muri, tutto grigiastro. Mi sento così anche io. Dentro. Ma non alla cinquanta sfumature... proprio grigio nel senso di incolore: stinta. Tutti i miei colori sono andati via e anche un po' la voglia di vivere. Ma sì, portatemi un mondo in bianco e nero, grazie, che magari è più economico!

«Io abito proprio in quel palazzone, dodicesimo piano, tende azzurre. Quella è la mia finestra» ci tiene a dirmi lui, indicandola.

A essere sincera, non me ne può fregare di meno. Tuttavia, fingo un sorriso stinto che ci sta benone.

Una settimana dopo, mi trasferisco nell'appartamento.

La mia prima sera da sola a Milano. Sono circondata da scatoloni. Mi guardano come quei palazzoni di cemento che sorgono tutto attorno a me, incombono! Ma questi sono peggio: pieni di roba che non vorrei nemmeno rivedere, però mica posso ricomprarmi tutto. Non importa se verserò qualche lacrima alla vista del frullatore, ne verserei di più a comprarne uno nuovo!

Guardo 'sti scatoloni bastardi, guardo i caseggiati grigi pieni di persone... Mi pare di essere una naufraga in un mare di indifferenza. Vorrei avere il coraggio di scendere al bar e prendermi la prima sbronza solitaria della mia vita. Invece, rimango qui a fare da bersaglio ai ricordi e a bere vino rosso da sola, da una tazza per la colazione. (Non ho ancora aperto lo scatolone con i bicchieri.) Mi sento immensamente sola. Io sono sempre stata quella che si prendeva le cotte. Mai nessuno se le prendeva per me. Me ne ero presa una anche per Max, il classico playboy della scuola, una tegolata tanto forte da sposarlo. E ora lui se n'è presa una per una ventenne.

All'idea mi torna la malinconia, mescolata a un po' di rancore, servita su un letto di delusione, con contorno di disprezzo... La tazza mi scivola dalle dita, cade a terra e va in frantumi, come la mia vita. Era quella con le margherite viola, la mia preferita.

Scaccio le lacrime che sottolineano quanto io sia sciocca e mi metto a ripulire.

No, fermi tutti. Ora che ri ripenso, una volta, un tipo si era preso una cotta inspiegabile per me. Avevo quindici anni e lui era il nipote della signora Irma, che abitava nella villetta dinanzi a quella dei miei genitori. Dalla finestra della mia stanza potevo vedere la sua. Ci separava solo il giardino. Lui era venuto dalla zia per le vacanze di Natale. Ogni tanto mi guardava, ma non mi aveva mai rivolto la parola. Però ogni sera disegnava delle margherite sulla condensa del vetro. Sapeva che le vedevo. E io sapevo che erano per me. L'ultima sera aveva aggiunto anche un cuoricino e mi aveva sorriso. Io ero troppo presa dalle mie cotte per i bellocci della scuola per curarmene... chissà perché stasera l'estrazione ha sorteggiato proprio quel ricordo. Forse perché le margherite disegnate sui vetri non durano, proprio come la felicità.

Da ragazzina, mi bastava poco per essere felice. Il mio mondo era a colori, e che colori! Quasi psichedelici. Mi entusiasmavo per tutto: leggere d'estate accanto al laghetto con il gracidare delle rane in sottofondo, andare alle giostre, lo zucchero filato rosa, guardare la TV con le amiche, fare le ruote in mezzo ai prati e sfidarsi a chi riusciva a farne di più e... anche le margherite sui vetri, ora che ci penso bene.

Sbuffo e guardo fuori dalla finestra quasi senza rendermene conto. Il mio sguardo corre al dodicesimo piano, alle tende azzurre... Trasalisco: sui vetri, tra la condensa, sono state disegnate delle margherite. È come se i miei ricordi fossero venuti fin qui e si fossero stampati su quella finestra. Le stesse margherite che...

Possibile che quell'uomo sia lo stesso ragazzino che un tempo mi corteggiava timidamente? Sta a vedere che gli sguardi che mi riservava e la sensazione di dèjà vu hanno una spiegazione. Il sorteggio dei ricordi forse non è sempre così casuale.

Lui si affaccia alla finestra, mi fa un cenno di saluto con una mano e sorride. Anche se è distante, ora ricordo quel sorriso. È pazzesco, ma deve essere proprio lui. In qualche modo non sono più così sola. Forse non tutti i ricordi sono bastardi e questa sera, per la prima volta dopo troppo tempo, mi viene spontaneo sperare che non lo siano nemmeno tutti gli uomini. Sì, le margherite sui vetri scompaiono in fretta, ma puoi sempre tracciarne altre, proprio come sto per fare io.

© Mirta Drake 2018

 

Lei arriva con la nebbia

 

Lei arriva con la nebbia. Ne è avvolta e mi avvolge, mi stravolge, mi travolge... trascinandomi con lei.

Mi vuole, mi desidera, attende che diventi come lei, con il suo sguardo di cenere. So che mi segue sempre, anche se non sempre la scorgo.

Grigiastra, avviluppata dalla malinconia, umida, spaventosa: un evanescente fantasma. La nebbia che porta e che la trasporta mi si appiccica addosso, bagnata, fredda, difficile da asciugare e da scacciare. Mi abbraccia, mi coccola, mi dice che mi ama, che sono come lei o un giorno lo sarò.

Compare accanto al mio letto, so che di notte mi guarda dormire, a volte mi ama, altre mi odia, spesso vuole solo spaventarmi. Qualche volta mi sveglio e ci guardiamo, ci sfidiamo, ma lei è sfuggente e io ne ho il terrore. Spesso scompare così come è arrivata, altre cerca di toccarmi nel profondo. Qualche volta ci riesce e mi sento diventare grigia, poco a poco, anche io... mentre lo stoltiloquio dei miei pensieri diventa una ragnatela da cui è difficile uscire.

Lei arriva con la nebbia, si insinua fra i sorrisi che mi sforzo di fare anche se sono triste.

Ho paura di diventare come lei: un viso serio, gli occhi spenti, la nebbia che le fluttua attorno come se le appartenesse, ma è lei che appartiene alla nebbia, fosca e infestante.

Quando sono sola è più consistente e viva, anche se so che è morta, dentro.

Lei arriva con la nebbia, e ti ruba la voglia di vivere se non riesci a tenerle testa, a mandarla via.

Appare in fondo al corridoio quando la casa è buia e io sono malinconica. Là a dirmi che c'è, che non mi lascia mai, che è pronta ad abbracciarmi e a stringermi con la sua pelle appiccicosa. A volte mi corre incontro, ammantata di quella nebbia che vuole occuparmi la mente e io cerco di scappare anche se so che, prima o poi, mi afferrerà con le sue mani adunche per donarmi quella carezza che può gelarmi il cuore. Talvolta invece, rimane ferma ad aspettarmi anche se accendo le luci, non dice nulla, basta la sua espressione per annichilirmi. Mi attende, aspetta un mio momento di debolezza, si nutre di ogni mia lacrima di infelicità. Ha un terrore fottuto delle mie risate, però.

Lei viene con la nebbia, e porta la nebbia con sé. Quella che offusca ogni pensiero coerente e mi fa dimenticare i giorni felici, perché alberga in quelli tristi. Mi prende per mano e mi mostra come si fa a morire dentro. Mi bacia sulle labbra mormorando, con il suo alito gelido, che la felicità è solo una fantasia temporanea, il sogno di una matta. Lei si crogiola nella mia malinconia, sguazza nelle mie lacrime e si abbuffa di ogni mio singhiozzo.

Mi sussurra nelle orecchie che nessuno piangerebbe per me, se morissi; anzi sarebbe meglio per tutti. Mi dice che tutta la mia gioia è solo un istante che si perderà nell'eterno. Mi suggerisce, con fare suadente, che sarebbe meglio arrendersi, perché è più facile, intanto lei resterà con me, con la sua foschia, e la sua voglia di trasformarmi proprio in quello che temo di essere veramente o di diventare... un giorno.

Le vedo specchiata in una bottiglia, sul fondo di un bicchiere, sul rubinetto della cucina, a volte nel mio stesso sguardo, un riflesso di me: quando le mie difese si abbassano lei fa capolino da ogni dove.

Lei arriva con la nebbia e a volte si traveste da parole mai dette, da rifiuti mai accettati, da delusioni. Basta poco e la sua bruma grigiastra si insinua fra le intercapedini dei sogni, torna nei luoghi della mia mente a lei cari, anche se la scaccio ogni volta. Anche se metto dei cartelli che dicono “vattene”, perché la nebbia non sa leggere.

Lei tenta di mangiarmi, di ingoiarmi, di prendersi ogni mio più piccolo traguardo. Sbuca alle mie spalle e ride di me in ogni specchio. Mi tormenta. Lei gode di ogni mio sbaglio e sghignazza di tutte le mie sconfitte. Lei mi mostra ogni amico che ho perso, dicendomi che è stata colpa mia, giocando con gli errori del mio passato come fossero chincaglierie con cui agghindarsi.

Mi fa sentire lo stomaco che si chiude e il respiro che non vuole essere respirato.

La donna che viene con la nebbia ti cuce la bocca: se parli di lei a chi non l'ha mai incontrata o conosciuta rischi di essere fraintesa, allontanata. Lei non piace a nessuno e nessuno vuole sentirne parlare, perché fa paura, eppure è seducente con la sua vittima, la attira piano piano e la insegue per poi succhiarle via la voglia di vivere, per catturarla. Si nasconde, si mimetizza, e non vuole che si chiacchieri troppo a lungo di lei, ti suggerisce che se lo facessi diventerebbe ancora più reale. È subdola e vigliacca.

La sua risata è uno stridio che ti fa accapponare la pelle, e ti fa vedere tutto nero. Il suo abbraccio ti intorpidisce e vorresti solo arrenderti.

Ma io sono una che combatte e non mi importa quante volte dovrò sconfiggerla, un giorno cederà, perché io ho un'anima guerriera.

E allora chiudo gli occhi e la prendo a calci in quel suo culo secco. Rido, mi aggrappo a tutte le volte in cui sono stata felice o scappo in luoghi che lei non conosce e non conoscerà mai. Misteriosi e magici, a volte accarezzati dal vento della fantasia, altre da quello dell'affetto, dell'amore e dell'amicizia.

La combatto con i sorrisi e le risate spensierate, spazzo via la foschia con le mie battute, che per lei sono schiaffi, e le dico a denti stretti che non mi avrà. È così che si fa la guerra alla donna della nebbia: giorno per giorno. E non lascerò che dal mio viso se ne vada un sorriso, senza essere certa che ne nascerà un altro e poi un altro ancora.

Lei arriva con la nebbia, e conosco il suo nome: si chiama depressione.


©Mirta Drake 2017

 

 

La notte appartiene agli amanti

Arden si girò su un fianco fra la seta nera, preda di un sonno agitato, popolato da visioni oniriche vivide, nutrite da dolorosi ricordi. Nel sogno, Kane le baciava la mano, faceva una riverenza e la invitava a danzare. Lei afferrava quelle dita fredde, dal tocco delicato, perdendosi negli occhi azzurro inverno dell'uomo.

Una giravolta, il minuetto che diventava via via sempre più cupo mentre l'abbraccio di Kane si faceva soffocante e lei si ritrovava con il mento appoggiato alla sua spalla. I capelli biondi dell'uomo che si bagnavano delle lacrime che lei tentava inutilmente di non versare. Uun nuovo giro. Kane la allontanava un po', pur tenendola per la vita e poi rideva e rideva ancora, ma non con lei: di lei. E d'improvviso lui si avvicinava e la baciava, la lingua gelida che si faceva strada fra le sue labbra arrendevoli, suscitando talmente tanta passione da farle dimenticare i dubbi che la assalivano quando lo vedeva così pallido, le vene sottopelle bluastre, e avvertiva il gelo sconvolgente che si portava addosso.

Arden si svegliò urlando, ancora ostaggio delle sensazioni oniriche che l'avevano portata indietro, quasi come ogni giorno: nei meandri delle scelte che aveva compiuto e della sua vita precedente. Chiuse gli occhi e si ricordò che quel tempo era finito, apparteneva a un irrimediabile passato che, a volte, si faceva tanto nitido da sembrare il presente e altre era così nebuloso da parerle soltanto una fantasia. La mente le faceva strani scherzi, talvolta temeva di essere completamente impazzita. Per esempio quando si dimenticava quale razza di creatura fosse, o in quale anno di trovasse.

Si strinse le braccia attorno al corpo, rabbrividendo, seppure sapesse che quella sensazione fisica era soltanto una sorta di precaria fantasia originata dal sogno.

Quando il crepuscolo prese completamente il posto del tardo pomeriggio, Arden si alzò, si guardò attorno fra le mura spoglie del seminterrato e, infine, si recò ai piani superiori per vestirsi adeguatamente. E Londra, poco a poco, sprofondò nel misterioso abbraccio della notte.

La ragazza si avviò lungo i viottoli dove si distendevano le tenebre, la mente dominata da un antico tormento. Lei era un incubo notturno, un essere raccapricciante in bilico fra la vita e la morte, aggrappata all'una, incatenata all'altra.

La sua doppiezza aveva ancora il potere di sconvolgerla, occupandole i pensieri fino a farle sfiorare la follia. In lei albergavano l'orrore e l'amore, in una strana alleanza su cui non aveva alcun potere. Il suo mondo era diventato oscuro molti anni prima, da quella lontana notte in cui fu la vita le era stata tolta. Però in cambio ne aveva ricevuta un'altra, nuova, tetra e tormentata. Arden ricordava ancora la sensazione del sangue che le fluiva fuori dal corpo fino a farla sentire debole, facendole accarezzare l'oblio. Baciata dalla morte stessa. Ma quel bacio di sangue era del suo amore. Un uomo che lei credeva tale, e invece... era un vampiro: Kane Remington. Lo aveva amato con tutto il cuore, un cuore di fanciulla, così tanti anni addietro da sembrarle, ora, un'altra vita, o meglio, la vita di un'altra.

Il bacio di sangue l'aveva cambiata e non solo fisicamente. All'apparenza, adesso, il suo corpo era ancora quello di una giovane fanciulla, ma in realtà era immortale. La sua pelle esangue, lo sguardo spietato, e le movenze erano simili a quelle di un predatore. Silenziose, caute e, quando lo desiderava, veloci in modo sovrannaturale.

Con una fitta di malinconia, la vampira si lasciò cullare dai ricordi umani, rimembrando un amore disperato e contestato che non riusciva a dimenticare. Lei, una ragazza di buona famiglia, invaghita di un damerino che pareva non avere né passato né futuro. Un frequentatore delle feste più ambite, un istrionico ospite dei ricevimenti più in vista, che non disdegnava passare ore al porto, a discorrere con i marinai. Così inconsueto, imprevedibile ma oltremodo affascinate. Eppure lui era stato tutto il suo mondo, il suo primo amore, il suo unico amante. La notte non faceva che ricordarle Kane e di giorno lo sognava, era forse questa la sua vera condanna?

«Stramaledetto Kane Remington!» esclamò Arden fra sé, calciando una pietra, proprio mentre lì accanto transitava una carrozza. I cavalli nitrirono irrequieti, quando percepirono il sinistro presagio del sovrannaturale. Arden si affrettò a infilarsi in un vicolo a malapena illuminato. Si guardò attorno osservando distrattamente una finestra, rischiarata dalla luce tremolante delle candele da cui proveniva qualche risata. Suo malgrado, venne travolta dalle memorie del cuore: i capelli setosi di Kane, così simili a fili d'oro, lo sguardo audace, il corpo agile e vibrante... e le incredibili parole d'amore che le sussurrava nei momenti di passione.

«Vuoi venire con me?» le aveva domandato lui, quella notte maledetta, tempestandole il viso e il collo di baci umidi che la facevano sentire vibrante e desiderata, ma anche peccaminosamente donna.

«Verrei ovunque con te» aveva risposto lei senza riflettere, incauta e dolce come solo una giovane innamorata sarebbe potuta essere. E lui l'aveva portata nel proprio mondo di sangue, baciandola, amandola, uccidendola per poi farla tornare a vivere per sempre. E qualche mese dopo, se n'era andato senza neppure salutarla. Era semplicemente sparito dalla casa che dividevano, quella dove Arden ancora viveva, con le segrete in cui potersi riparare adeguatamente durante il giorno. Di lui era rimasto solo qualche abito, alcuni libri e il fantasma delle sue parole forbite, oltre al suo profumo tra le coltri.

L'aveva lasciata sola, a comprendere come vivere da vampiro, a capire come sopravvivere. E dopo qualche decennio anche a convivere con il dolore di assistere alla morte di ogni famigliare e amico, uno dopo l'altro, senza poterli consolare, nascosta fra le brume della notte. Celata a tutti, quasi vivesse in un mondo parallelo, perché di certo non sarebbe mai potuta tornare dai suoi cari trasformata in quella creatura demoniaca e sanguinaria. Loro la credevano morta, e lei li aveva visti disperarsi all'idea, sbirciandoli di nascosto, con un macigno nel petto. Arden aveva imparato a tirare avanti, a dominare la sete di sangue, a sembrare umana in modo da non essere individuata come mostro; ma aveva fatto quasi tutto da sola e con grande sforzo. Le era stato d'aiuto ricordare il modo in cui lo faceva Kane, prima di abbandonarla come se lei fosse stata solo un frammento della sua lunga esistenza di immortale.

In Arden era rimasto qualcosa di incompleto, di spezzato. Come un indovinello accattivante per cui non era stata prevista una risposta. E il cigolio sinistro della sua mente sull'orlo dello squilibrio non faceva che rammentarglielo. Spesso si domandava se lui sarebbe tornato e, se così fosse stato, come avrebbe reagito? Lo avrebbe amato ancora, ancora di più? Oppure adesso il suo cuore indurito dall'immortalità e dagli omicidi, grondante di peccati, lo avrebbe odiato? A volte si addormentava immaginando che fosse diventato polvere, magari ucciso da un avversario, o catturato da quegli umani che erano al corrente della loro esistenza. Lei non ne aveva mai avuto sentore, ma Kane un giorno gliene aveva parlato. Le aveva detto che esistevano i Cacciatori di Incubi, che davano la caccia a creature come loro. Glielo aveva detto durante il breve periodo che avevano trascorso insieme, entrambi vampiri... Quando le loro scorribande notturne le parevano ancora divertenti, misteriose e meravigliose. Prima di restare sola e di rendersi conto di ciò che sarebbe stata per sempre.

Arden aveva sperato a lungo di trovare un altro vampiro per non essere sola, e ancor di più aveva desiderato che Kane non l'avesse mai abbandonata. Kane non le aveva mai spiegato come creare un nuovo vampiro, altrimenti l'avrebbe fatto. A volte, fantasticava di scegliere un umano che le piacesse, immaginava di seguirlo, di capirlo, forse un po' di amarlo per poi renderlo come lei. Un compagno. Ci aveva provato, ma morivano tutti, rendendo il vuoto che sentiva nel cuore sempre più grande, come un vortice nero. E così aveva lasciato perdere. Forse i mostri dovevano rimanere soli, reietti nella notte, orrori disgustosi che nessuno poteva amare. E, per sua esperienza personale, forse non riuscivano neppure ad amarsi fra loro, non a lungo, almeno.

Tuttavia, quando si nutriva, quel vuoto veniva colmato. Quando il sangue umano le scivolava, caldo, sulla lingua e poi le scendeva nello stomaco si sentiva viva, almeno per un po'. Il momento in cui il cuore della vittima pulsava di vita, sempre più freneticamente per poi fermarsi di colpo, le faceva sempre provare un'estasi, subitanea quanto temporanea. La vita tornava a scorrerle dentro, la percepiva animarle ogni cellula, accentuando ancora di più i suoi sensi di vampiro. Era diverso, era più intenso. Per qualche ora viveva di nuovo, condivideva emozioni reali, umane. E tutte quelle vite che aveva stroncato diventavano ricordi da archiviare nella sua mente sovrannaturale, ampliata dall'immortalità tenebrosa.

Arden si appostò dietro al giardino di una villa, pregustando il momento dell’attacco. Sarebbe stato il fato a scegliere chi sarebbe venuto a lei, sfidando spavaldamente il buio e i vicoli di Londra che, tutti lo sapevano, di notte erano molto pericolosi. La vampira aveva messo da parte i sensi di colpa nell'uccidere. Amava gli umani, quasi li invidiava, tuttavia sentiva di essere una creatura superiore, una predatrice. E non era certo colpa sua se lo era diventata. Forse non aveva più un'anima in grado di aiutarla a distinguere il bene dal male.

Un lampione distante gettava ombre sinistre sui fiori del giardino, pallide chimere di purezza, che affondavano le radici nella terra marcescente. “La vita è uno strano connubio, legata strettamente alla morte che le serve per espandersi e fiorire. Ma poi quei fiori stupendi marciscono e tornano a essere terra, avvolti in un'eterna spirale di morte”, pensò Arden, se fosse stata ancora umana avrebbe sospirato, probabilmente.

Si strinse nel mantello scuro, alzò il bavero, il cappuccio le copriva i capelli neri striati da una ciocca bianca come il latte che era comparsa quando era diventata un vampiro. A quanto pareva alcune leggende erano vere: un forte spavento poteva depigmentare i capelli. E nessuno spavento, per lei, era mai stato grande come quello di capire di essere morta e poi rinata come mostro. Ci aveva impiegato giorni ad assimilare correttamente l'informazione, giorni in cui non aveva fatto che urlare tentando di uscire dalla segreta in cui Kane l'aveva chiusa, portandole umani privi di sensi di cui nutrirsi. All'inizio la cosa le faceva ribrezzo, ma poi la fame l'aveva fatta capitolare.

Anche la sua pelle così levigata e pallida, quasi perlescente sarebbe potuta sembrare sinistra all'occhio umano, tuttavia le vittime non se ne rendevano mai conto, finché non era troppo tardi, quasi che il loro sguardo non volesse trasmettere al cervello ciò in cui si rifiutavano di credere. Del resto anche lei c'era cascata, così come tutti coloro che avevano conosciuto Kane Remington. Forse poteva sembrare bizzarro, inconsueto, ma il suo carisma lo rendeva così interessante da ingannare tutti quanti. Lei non aveva ancora acquisito tale capacità.

Un guizzo di colore, un mantello purpureo. Qualcuno in arrivo. Arden sentì tendersi i muscoli da predatore, pregustò il sapore del sangue, accantonando ogni altro pensiero. Non aveva alcuna strategia, solo sete, e fame.

L'uomo era giovane e spavaldo e, evidentemente, non così oculato da evitare di uscire da solo, di notte. Sembrò sorpreso quando lei gli si parò dinanzi con una mossa rapida quanto felina.

«Signorina, avete bisogno... d’aiuto?» domandò l'uomo, e lei, nello stesso momento mosse le labbra sillabando la frase che già aveva letto nei suoi pensieri.

Lui si rese conto del macabro scherno sull'ultima parola, l'intonazione cambiò di colpo, e parve quasi una supplica. Arden sorrise di scatto rivelando i canini appuntiti, mentre le iridi scure si facevano, poco alla volta, giallognole e brillanti.

La vittima sarebbe fuggita se lei non fosse stata tanto lesta da balzargli addosso prima che potesse pensare di farlo. Nel momento in cui Arden affondò i denti nella sua carne lo amò e lo desiderò come forse non era mai stato da nessun altro al mondo. Una comunione di sangue, pensieri e sensazioni. Paura, piacere, odio, terrore, lussuria, pietà, appagamento e soddisfazione. Un sorso per ogni brivido, ogni brivido un sorso finché la vita non si ritirò dalla scena, lasciando solo un cadavere e un vampiro. Due morti.
Arden, il viso macchiato di sangue e da un sorriso desolato, appoggiò delicatamente a terra il corpo, con rispetto. Poi si spostò nuovamente fra le ombre, pronta a dileguarsi, ma per un attimo rivolse gli occhi al cielo trapunto di stelle e sussurrò: «Per te, Kane».

Non suonavano come se gli dedicasse un sacrificio, bensì come se gli rivolgesse un'accusa amara, intrisa di malinconica dannazione, permeata dalla presenza di un amore disperato, mai concluso che forse restava vivo solo nella sua mente popolata da così tante sensazioni che a volte litigavano per la supremazia.

Arden strizzò gli occhi, si ripulì le labbra, sazia, triste e spietata.

Si allontanò con il passo di un umano, mentre la notte le accarezzava la pelle resa meno diafana dal pasto appena consumato. Quell'uomo in qualche modo era stato il suo amante per un istante e anche per sempre, ma l'amante che lei desiderava era lontano, chissà dove, forse polvere.

Il sangue che le irrorava il corpo, il cervello, le vene, la rendeva ancora più percettiva. Poteva udire gli artigli dei gufi aggrapparsi ai rami, nel bosco lontano. Riusciva a percepire l'odore di paura e di dolore di una donna che stava partorendo, due quartieri più in là. Socchiudendo le palpebre metteva a fuoco i dettagli delle ciglia di una prostituta, china su un cliente, in fondo al vicolo che stava superando. Avrebbe potuto sentire, vedere, udire, toccare, assaporare e vivere tutto in modo incredibilmente amplificato, eppure non apprezzava più quelle sensazioni, perché con loro arrivava anche una sensibilità sessuale ed emozionale quasi insostenibile. Era come essere senza pelle, senza difese, mentre le emozioni banchettavano con la sua precaria sanità mentale. E poi i ricordi dei momenti di passione, con Kane, subito dopo essere stati a caccia, nei viluppi delle tenebre, si facevano di un'intensità intollerabile. In quei lassi di tempo, che a volte duravano anche ore, pareva che tutto il suo mondo si riducesse a quello, a brividi di sangue ai confini della follia.

Dominata da una passione mai sopita, prigioniera di un'amore incancellabile, e schiava di sentimenti così acuti da risultarle ingestibili, Arden scoppiò a ridere. Una risata disumana, che solo creature da incubo come lei avrebbero potuto percepire. Il suono di un pianoforte giunse da una magione lontana e le fece venire voglia di danzare. «Sono una creatura della notte» disse spalancando le braccia e girando su se stessa così in fretta da sollevare refoli di polvere come piccoli vortici. Poi si bloccò, improvvisamente triste, mentre gli abiti ancora le si muovevano addosso. «E la notte appartiene agli amanti.»

© Mirta Drake 2017

©

 

Cuore di mummia


31 Ottobre 1992

«Prendilo, prendilo, s'è infilato là: dietro alla siepe!» bisbigliò Shelley, emozionata, con il secchiello di plastica a forma di zucca che le penzolava da un mano, mentre indicava la siepe con l'altra.

Le sue ali da farfalla, appese alle schiena come uno zainetto, rilucevano muovendosi piano, quasi fossero vere, e non improvvisate con tulle e rimasugli di glitter del Natale precedente.

Kyle, il suo amichetto nonché vicino di casa, che sfoggiava un improvvisato costume da mummia ricavato da circa dieci rotoli di carta igienica, fece uno scatto verso la siepe, poi si fermò e puntò gli occhi azzurri verso la bambina. «Ma non sappiamo cos'è! E se poi morde?» La voce era falsata dalla carta dinanzi al viso. In cima al capo, sbucava qualche ciocca bionda.

Shelley mise il broncio, lo stesso che faceva quando sua madre le diceva che otto anni erano troppo pochi per andare a scuola da sola. Però quella notte, la notte di Halloween, erano stati sufficienti per permetterle di andare a fare dolcetto e scherzetto con Kyle. Anche se lei non voleva ammetterlo, le piaceva un sacco.

«Ti prego, catturalo per me» squittì battendo le mani e rischiando di rovesciare il secchiello con i dolciumi.

«No, non voglio infilarmi lì sotto, mi si strapperà tutta la carta... cioè le bende. E abbiamo ancora qualche casa dove suonare prima che sia ora di rientrare» si giustificò Kyle, socchiudendo gli occhi azzurri con aria di sfida.

Era sempre così con lei, anche quando giocavano a nascondino, se Shelley non otteneva quel che voleva metteva il broncio e diventava intrattabile. Però lui si era imposto di non fare sempre tutto ciò che diceva: ora era grande, doveva smetterla di accontentarla ogni volta.

«Come vuoi» mugugnò la bambina tormentandosi una ciocca di capelli rossi, ricci.

Kyle le trotterellò accanto. «Allora, se fai la musona, andiamo a casa!»

«Era uno gnomo» si intestardì Shelley.

«Non era uno gnomo! Probabilmente era un gatto o forse un leprotto. È che tu vedi sempre cose che non ci sono.»

«No, io vedo le cose che tu non vedi!» specificò testardamente Shelley.

«Uffa, Shelley, credi a tutto! Certe cose non esistono. Ficcatelo in quella testa rossa e dura!» sbraitò Kyle.

Lei sbuffò e strinse le labbra, trattenendo le lacrime. Non voleva che lui capisse quanto ci era rimasta male. Ultimamente, le parole dell'amico avevano acquisito lo strano potere di ferirla.

I due avevano inseguito quella cosa per un pezzo, ridacchiando e correndo, attraverso due giardini e poi lungo tutto il parco giochi, per poi perderlo di vista quando avevano incrociato un altro gruppo di ragazzini. E il fatto che l'avessero scorto di nuovo, accanto alla siepe, le aveva fatto credere che il divertimento sarebbe ricominciato.

Ma non era stato così.

Kyle, di recente, diventava strano quando erano con altri bambini, soprattutto maschi. Fingeva di essere più grande. E lo era. Ma solo di un anno. Un anno bastava però, a quanto pareva, per non tenerla più per mano e per atteggiarsi a “grande”.

I due bambini ripresero a camminare uno accanto all'altra, ognuno perso nei propri pensieri, mentre le decorazioni delle case attorno a loro rendevano la notte magica e un po' incantata... più di quanto potessero immaginare.

Shelley lanciò un'occhiata di straforo alla mano destra di Kyle: là sulla carta igienica che simulava le bende di una mummia c'era un cuoricino rosso, disegnato a pennarello. L'aveva fatto lei poco prima che uscissero per fare dolcetto e scherzetto e lui si era arrabbiato. A quel punto, la bambina gli aveva detto, ridacchiando: «Dai, così sembra sangue!» Ora quel cuoricino le faceva sentire il proprio strizzato in una morsa.

Kyle la accompagnò a casa e, sulla soglia, le disse: «Non pensare più a quel “robo” che abbiamo visto. Io non credo a queste cose ma... sono contento di non averlo trovato, in qualche modo mi faceva paura».

«Fifone!» rispose lei. Kyle si strinse nelle spalle, poi si voltò e corse via, inghiottito dalla notte.

Laggiù, accanto alla siepe, un essere indefinito, molto simile a quello che un umano potrebbe facilmente scambiare per uno gnomo, ridacchiò malignamente, ascoltandoli. Si riaggiustò il farsetto viola in vita e si allungò in avanti, mentre guardava la sagoma del bambino allontanarsi, illuminata a malapena dalle ombre aranciate dei lampioni. Dopodiché, si frugò in tasca e sparse della polvere iridescente nell'aria, mormorando qualcosa.

Era Halloween: la notte in cui anche le creature più strane avevano diritto a camminare sulla terra e a interagire con gli umani, con i vivi. Con un ultimo ghigno, la misteriosa creatura si mise nuovamente a correre, sempre più in fretta, nella stessa direzione di Kyle: così giovane, così poco incline a credere nel sovrannaturale da farlo oltremodo arrabbiare.

Poco dopo, nel giardino retrostante, tutte le zucche intagliate parvero sorridere in modo sinistro, ma forse era solo un gioco di luci. Nel buio ci fu un urlo soffocato e tutte le fiamme delle lanterne si spensero di colpo.

Il giorno seguente, Shelley venne a sapere che Kyle era sparito nel nulla: non era tornato a casa. Le ricerche proseguirono per anni, lei stessa fu interrogata per anni, ma nessuno diede retta alla storia di quello strano “gnomo”. Dissero che era la fantasia di una bambina, pensarono a un rapimento e, infine, al peggio. Kyle non fu mai più ritrovato.

Shelley accusò il colpo ammutolendosi fino all'età di quattordici anni quando, dopo numerose sedute dallo psicologo infantile, riuscì a metabolizzare il trauma. Non riusciva a togliersi dalla testa che la sparizione di Kyle avesse a che fare con quella strana creatura. Ma, crescendo, si convinse che si trattasse soltanto di fantasia. Tuttavia, nella sua mente continuarono a rimbombare per molto tempo le ultime parole che le aveva rivolto Kyle, quella notte: «Non pensare più a quel “robo” che abbiamo visto. Io non credo a queste cose ma... sono contento di non averlo trovato, in qualche modo mi faceva paura».

L'aveva accompagnata fino alla soglia di casa e poi era corso via, nell'oscurità, con le finte bende che svolazzavano... là fuori, da solo, nella notte in cui tutto, più o meno, era possibile. Era stata l'ultima volta che l'aveva visto. E non riusciva a fare a meno di pensare che fosse anche colpa sua: era stata lei a voler dare la caccia a quello “gnomo”.


31 Ottobre 2014

Shelley si strizzò in un costume da infermiera sexy, poi si guardò allo specchio. «Ti pare adatto alla festa?» domandò alla sua amica che era andata da lei per agghindarsi.

Denise la guardò scettica: «Non tanto!»

«Troppo audace?»

«Troppo volgare... non è da te!»

«Ma oramai, con l'età che ho, se non metto in mostra la merce chi mi si fila più? Ci sono orde di ventenni pronte a mostrare tutto... e il loro tutto è più sodo del mio!» disse Shelley in bilico fra sarcasmo e cinismo, tentando di risultare simpatica. Invece era oltremodo a disagio.

Denise si fissò meglio la crocchia di capelli neri in cima alla testa, muovendosi in un fruscio di trinoline verso Shelley, poi diede una gomitata all'amica. «Solo perché Matthew t'ha mollata pochi giorni fa, la tua vita non è finita. Datti tempo, no?»

Shelley ripensò con amarezza alle parole dell'ex fidanzato: «Non voglio iniziare una nuova vita con te, perché tu non ami me. Ami un ragazzino morto! Ami l'idea di essere legata a quell'episodio. Non sopporto più le tue paure irrazionali, come quella del buio... come quella di dirmi che mi ami. È finita, Shelley!» La ragazza scacciò il ricordo. Aveva bisogno di divertirsi... e forse Matthew, almeno un po', sotto a quell'impenetrabile strato di stronzaggine, aveva ragione, doveva lasciarsi il passato alle spalle.

«Parli bene tu, vestita da Fata Turchina» provò a scherzare. «Convivi con Daniel da così tanto tempo e non hai idea della giungla che c'è là fuori: la concorrenza è spietata.» A quel punto, un'ombra le passò sul viso eccessivamente truccato e la ragazza si lasciò cadere sul divano con un sospiro.

L'amica sorrise, poi si morse un labbro, sedendosi accanto a lei. «Sicura che ce la farai?»

Shelley si sistemò l'improbabile crestina. «Cosa intendi?»

«So che per te questo periodo è sempre strano, sai per la storia di quel ragazzino sparito dal tuo quartiere, quando eri piccola.»

Con un'alzata di spalle, Shelley annuì «Ce la farò, voglio uscire stasera, voglio divertirmi.» Era la prima volta che acconsentiva a partecipare a una festa di Halloween. Di solito trascorreva quella serata chiusa in casa, attenta a non sbirciare neppure dalla finestra: vedere i bambini che facevano dolcetto o scherzetto la riportava sempre indietro, a quei giorni d'incubo, quando Kyle era sparito. Per quanto le sedute di analisi l'avessero aiutata a superare il trauma, non era mai riuscita a togliersi del tutto di testa l'idea che l'amichetto fosse sparito in seguito all'avvistamento di quello “gnomo”. Ripensò ancora una volta alle parole di Kyle: “Io non credo a queste cose ma... sono contento di non averlo trovato, in qualche modo mi faceva paura”.

Shelley sospirò, chiuse gli occhi e scacciò il brivido che le aveva accarezzato le spalle. “Sono adulta”, si disse. “Devo superarlo.”

Le due amiche andarono alla festa. Shelley utilizzò l'alcol per bandire il ricordo di Kyle dalla mente, fino ad annebbiarla. Ballò con vampiri, maghi, zombie e improbabili stregoni. Verso mezzanotte, però, proprio mentre stava per andare a cercare Denise, qualcosa la indusse a guardare fuori dalla finestra della villetta dove si teneva la festa. Là, nel giardino addobbato con luci, lanterne, finte lapidi e innumerevoli zucche, c'era qualcuno con un costume da mummia.

Era in penombra, la brezza faceva ondeggiare le bende del travestimento... sembravano fatte di carta igienica, così leggere, impalpabili. Dal capo, qualche ciocca bionda sfuggiva alla prigionia della carta immacolata. La guardava. Era impossibile decifrarne l'espressione, poiché il viso era coperto dall'improvvisato costume, però aveva gli occhi azzurri. Socchiusi.

Shelley si mise una mano dinanzi alla bocca. “È solo la mia immaginazione” si disse deglutendo l'ultimo sorso di birra. Tuttavia, si affrettò ad appoggiare il bicchiere di carta arancione e a uscire in giardino.

L'aria fredda la fece rabbrividire. La “mummia”: era ancora là, in piedi dietro a una lapide di plastica. Con lo stesso sguardo di sfida che un tempo le riservava Kyle. Stavolta pareva sfidarla ad avvicinarsi.

Shelley barcollò, tentò di snebbiarsi la mente, si passò una mano sugli occhi facendo scempio del trucco, ma il ragazzo era ancora nello stesso punto, a fissarla. La carta igienica che ondeggiava sullo sfondo della notte stellata, nel giardino deserto. Gli altri erano tutti all'interno, faceva troppo freddo per uscire. La ragazza mosse un passo, poi un altro ancora, senza staccare gli occhi dalla mummia. Le pareva di essere nella terra di nessuno, un pezzo di mondo sospeso fra realtà e pericolose fantasie che la riportavano ai suoi incubi frequenti.

“È solo un ragazzo travestito da mummia, non può essere Kyle” pensò, mentre il cuore sembrava bussare per uscirle dalla cassa toracica.

Quando fu abbastanza vicina, si bloccò. Il respiro le si mozzò in gola: sulla carta dalla mano destra del ragazzo c'era disegnato lo stesso cuoricino rosso che aveva tracciato lei, ventidue anni prima, con un pennarello, sul costume di fortuna di Kyle.

“È lui!” pensò. Balzò in avanti per abbracciarlo, per chiedergli dove fosse stato per tutto quel tempo, con il cuore che le esplodeva di gioia, ignorando l'assurdità della situazione.

La mummia sollevò una mano, indicandole di fermarsi. Lei obbedì, mormorando: «Kyle?» Ormai era solo a mezzo metro da lui.

La mummia annuì e lei fu certa che la bocca, sotto alla carta igienica, avesse sorriso. Quel sorriso che le faceva sempre sentire lo stomaco pieno di farfalle, da bambina.

«Sei tu? Dove sei stato? Sei...» Vivo? Non riuscì a pronunciare l'ultima parola, era stata inghiottita da un brivido.

Lui fece un cenno di diniego e, dopo un istante che le parve eterno, mormorò: «Avevi ragione, sai? Certe cose esistono davvero... e hanno deciso di portarmi via. Di prendermi, per provarmi la loro esistenza.»

Shelley vacillò, sentendosi mancare.

La mummia, con la voce attutita dal travestimento, mormorò: «Ma le persone speciali come te, che vedono oltre il mondo reale, possono scorgermi, soprattutto in notti come questa, quando l'irreale si fonde con la realtà, e il confine fra i vivi e i morti si fa indistinto.»

«Kyle, è stata colpa mia. Quella notte...» sussurrò Shelley, gli occhi colmi di lacrime e la pelle increspata dalla pelle d'oca.

Lui scosse il capo. «No. Sii felice, Shelley. Non avrei dovuto scherzare con quelle cose, dire che non ci credevo.» Annuì con consapevolezza. «Vivi. Vivi anche per me. Io sono semplicemente... dall'altra parte della realtà.»

«Cosa vuoi dire?»

«Tu vedi sempre cose che non ci sono» sussurrò il ragazzo, con una nota di malinconico scherno nel tono. «Devo andare adesso, Shelley.»

«NO!» Lei balzò in avanti, per afferrarlo, per stringerlo, ma non ci riuscì: lo sfiorò appena, sentì la carta del travestimento strapparsi. La mummia semplicemente scomparve, lasciandola con un pezzetto di carta igienica in mano, adornato dal cuoricino disegnato da una bambina.

Shelley strinse il pugno. Il mondo le vorticò attorno. Tentò di aggrapparsi alla lapide di plastica, ma perse i sensi.

Poco dopo si sentì scuotere e, riprendendosi, mormorò: «Kyle?!»

Denise la tirò in piedi e alzò gli occhi al cielo, poi la scosse di nuovo. «Sapevo che non era una buona idea insistere per farti venire a questa festa, e soprattutto lasciarti bere a quel modo. Non ci sei abituata.»

Shelley strizzò gli occhi, intirizzita e sconvolta. «Io...»

«Ti ho vista uscire. Barcollavi. Sei rimasta ferma per qualche istante, poi ti sei accasciata a terra» le spiegò Denise.

«Ho visto Kyle. Era qui» disse lei, guardando l'amica negli occhi. «Non l'hai visto? C'era un ragazzo alto, vestito da mummia! Dimmi che lo hai visto anche tu, ti prego.»

Denise scosse il capo. «Tesoro, non c'era proprio nessuno. C'eri solo tu... che hai bevuto troppo e hai collassato. Vieni, torniamo dentro.»

Shelley annuì, poi si ricordò del pezzetto di carta igienica. Abbassò gli occhi e aprì la mano stretta a pugno. C'era un brandello di carta con un cuoricino disegnato sopra, a pennarello rosso... lo stesso che aveva fatto lei, quella maledetta notte di ventidue anni prima.

Sulla collinetta erbosa poco distante, un ragazzo travestito da mummia, semidisteso e appoggiato a una vecchia panchina malconcia, sorrise mentre Denise riaccompagnava Shelley al caldo. Un giorno si sarebbero ritrovati, ma nel frattempo, pur come creatura da incubo, avrebbe tentato di vegliare su di lei anche se il mondo irreale, che lo aveva rapito, tentava continuamente di impedirglielo.

Qualcuno, simile a uno gnomo, gli picchiettò sulla spalla. «Dobbiamo andare, Kyle. E poi avresti dovuto spaventarla, è questo ciò che facciamo. È il nostro lavoro» disse un po' scocciato, con voce stridula.

Kyle sospirò e abbassò il capo. «Credo di averlo già fatto, ventidue anni fa e per sempre.»

©Mirta Drake 2017


 

Comprami



“Comprami, io sono in vendita. E non mi credere irraggiungibile. Ma un po' d'amore, un attimo. Un acquisto semplice, solo una dracma, mi basta per essere tua.”

Athanasius sente quel motivetto, ispirato da una canzone d'epoca, più o meno per tutto il giorno. È il jingle di una pubblicità che accompagna un breve video dai colori quasi psichedelici dove una donna sintetica danza con movenze sensuali dentro a una gabbia di vetro.

Lo sente di sera, a casa, dinanzi all'oloschermo quando è il momento dei consigli per gli acquisti.

Lo ascolta mentre va a fare la spesa fra i marciapiedi azzurri, gremiti di gente, di NovaCity2.0. Là: mandata in onda sugli olocartelloni che campeggiano in ogni strada, in ogni vicolo.

Gli rimbomba nelle orecchie mentre viaggia sul TubeCon, la metropolitana ad altissima velocità che percorre gli intestini della città come un missile, dove i mega-schermi sul soffitto continuano a trasmettere le movenze accattivanti di quella donna così finta, da sembrare perfettamente vera; il motivetto sottolinea che non è irraggiungibile, basta acquistarla!

Lo sente ogni giorno: che piova o ci sia sole, sotto lo scrosciare dell'acqua rigenerata della cupola, o sotto al sole pallido che sembra solo un'illusione.

Lo sente continuamente, gli entra in testa, è così orecchiabile, così invitante. “... solo una dracma mi basta per essere tua!” E poi quel sorriso triste e consapevole.


Athanasius è fermo dinanzi a un negozio di Asimov Street, il sole artificiale della cupola che protegge NovaCity2.0 sembra riscaldargli davvero la pelle. Il motivetto continua a canticchiargli nella testa promesse artificiali quanto allettanti.

Lei è là. Esposta in vetrina, del tutto immobile, quasi luccicante. I capelli, un caschetto corto, sono mossi da un soffio di vento artefatto, sembrano darle davvero vita sullo sfondo di una finta spiaggia tropicale. Indossa un bikini argenteo, adornato da cristalli di gerbin così brillanti da abbagliarlo, accanto a lei un piattino di frutta di plastica, ananas, banane, fragole... tutto così finto da sembrare ancora più bello, da simboleggiare la perfezione.

Il prezzo è lì esposto, come se qualcuno potesse non conoscerlo dopo quell'invasione di pubblicità a tappeto. 1 Dracma.

“Una dracma” pensa Athanasius... l'equivalente, all'incirca, di sei mesi di stipendio per un lavoratore medio.

“Una dracma per avere l'amore incondizionato e finto di una donna finta”, riflette Athanasius. Chiude un istante le palpebre, pensando a tutte le donne che ha avuto, vere, ma che non lo hanno mai amato veramente. Lo hanno solo usato.

Un passante lo urta e non gli domanda nemmeno scusa. Athanasius barcolla ma subito riacquista l'equilibrio, irrigidendosi.

Incontra gli occhi azzurri della donna sintetica: sono spenti, perché anche lei ora è spenta. Basterebbe una dracma per farla attivare, per donarle la vita. Per essere l'unico della sua vita, non sono fandonie.

Ultimamente la moda dei sintetici sta prendendo sempre più piede. Si era iniziato con alcuni, più di trent'anni prima, costosissimi. Modelli semplici, più che altro adatti a sbrigare faccende domestiche, che si sono fatti via via sempre più complessi ed elaborati, fino a somigliare in modo incredibile ai loro creatori, con inimmaginabili capacità di pensiero, e rielaborazione logica, in grado di dire frasi pungenti, addirittura di fingere di amare. E ora, finalmente, non sono più solo per cittadini privilegiati: anche i modelli come questo, che sono un chiaro riferimento sessuale, hanno costi più abbordabili. Il modello precedente esisteva in versione maschile e femminile, i bordelli ne sono zeppi. Questa è diversa, è stata lanciata per prima la versione femminile, sta andando a ruba. Forse fra poco alzeranno il prezzo, magari quando uscirà il suo “compagno”. Athanasius sente qualcosa di pungente attraversargli il corpo, sembra gelosia. Si sforza di sorridere.

Accanto a lei, in vetrina, il video in cui danza in una gabbia di vetro è più lungo ed elaborato di quello degli spot che mandano in onda e/o con cui hanno tappezzato la città. Lei balla, aggrappata alle sbarre luccicanti, a ritmo con la musica, una macchina splendidamente calibrata, che sembra avere legamenti, cartilagini e muscoli tonici. La pelle liscia e sensuale, lo sguardo accattivante e quelle labbra così carnose da incantarti.

Athanasius coglie appieno il messaggio subliminale recondito: comprami, liberami da questa gabbia, sborsa quella ridicola somma e farò tutto ciò che vorrai. Tua per sempre.

Stringe le dita sulla sporta della spesa fino a farsi sbiancare le nocche. L'idea di possedere qualcuno gli pare grottesca e meravigliosa al tempo stesso. “Non è umana” si dice. “Non è come possedere sul serio qualcuno, non c'è nulla di male. Lo fanno tutti.”

La sua immagine si specchia nella vetrina, accanto al viso di Eva 1.0. Sembrano così perfetti, insieme.

Athanasius varca la soglia del negozio; mentre le porte automatiche si aprono con un sibilo, tocca la carta di credito che ha nel taschino della giacca, lì solida, a dirgli che può farne ciò che vuole. Va dritto al bancone. Un commesso lo squadra da capo a piedi e poi blatera: «Che vuoi?»

Senza dare peso alla maleducazione dell'addetto, Athanasius mormora: «Il modello in vetrina: Eva 1.0.»

«Costa una dracma» ribatte l'altro.

Athanasius sfila la carta di credito dal taschino e la appoggia sul bancone di vetro nero. L'altro la afferra come un rapace. «È intestata a Shaylin Marcus, chiaramente non è il tuo nome, come la mettiamo?»

«Posso disporne. Controlla sul sistema» risponde Athanasius senza battere ciglio.

Il commesso esegue e poi sbuffa. «Confermato. Le perversioni umane non smetteranno mai di stupirmi.»

Athanasius non risponde, attende e basta.

L'uomo torna dopo qualche istante con una scatola gigantesca, su un carrellino. «Ti verrà consegnata all'indirizzo sulla carta di credito, ci sono tutte le istruzioni. Vuoi chiedermi qualcosa di specifico?»

Athanasius fa cenno di no con la testa, gli occhi incollati a un riquadro stampato sullo scatolone, sotto alle varie scritte pubblicitarie: “1 - Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. 2 - Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge. 3 - Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.”

Sono perfette e impressionanti al tempo stesso. Athanasius si sente sopraffatto.

«Ehi, sei in tilt?» lo richiama il commesso, che sembra non solo maleducato ma anche nervoso. Forse è strafatto di NzX©, forse è semplicemente sottopagato, o magari chissà, la moglie l'ha piantato per un modello A16, usato.

Athanasius sorride. «Tutto a posto. Dove firmo?»

Il commesso sbuffa e porge un pad al cliente, poi stampa un'etichetta e la appiccica allo scatolone, infine dà una ricevuta ad Athanasius. «La consegna è alle diciotto, ci sarà qualcuno a casa?»

«Naturalmente, e grazie» dice Athanasius avviandosi all'uscita.

«La garanzia dura cinque ann...» mormora il commesso in automatico, ma quando si rende conto che l'altro è già sparito si lascia andare al turpiloquio.

Alle diciotto in punto Athanasius è a casa, si è appena fatto una doccia e indossa un maglione e un paio di jeans stinti.

Appena sente suonare l'olocampanello, percorre il corridoio, lungo e vuoto, quasi asettico con le stampe artistiche in bianco e nero appese alle pareti. I suoi passi sono calmi e misurati, come se niente potesse ottenebrare la sua pacatezza. Apre la porta. Un corriere un po' affannato gli consegna il pacco scaricandolo da un carrello. Athanasius firma senza degnare l'uomo di uno sguardo. Il corriere, invece scuote il capo, come fosse disgustato.

Athanasius trascina in casa la scatola senza alcuno sforzo, poi la apre come se non avesse fatto altro per tutta la vita: con movimenti sicuri e pratici.

Legge in fretta le istruzioni per l'attivazione, poi estrae Eva 1.0 dall'imballo, pigia il tasto apposito dietro al suo collo senza osare nemmeno guardarla, seppure non sia nuda: indossa un vestitino corto, grigio, in fibra di krepsi, che le sta benissimo.

Il viso di Eva 1.0, con uno scatto seguito da un sibilo sommesso, si stacca dal resto della testa, scivolando in avanti, trattenuto solo da un carrellino a scorrimento automatico.

Le dita di Athanasius volano sulla pulsantiera nascosta, bastano pochissime pressioni e una breve digitazione sul display per attivarla e registrarla. Poi preme nuovamente il tasto sul collo e l'automa torna a somigliare a una donna vera e propria. Pochi istanti e lei sorride, prendendo vita.

«Ciao, Athanasius.»

«Ciao, Eva.»

Athanasius finalmente non si sente più solo. Lei è lì, non è più qualcosa da comprare per una dracma, è reale, non è più solo una canzoncina insopportabile. Le ha obbedito, l'ha liberata, l'ha comprata, non è mai stato amato ma è convinto che saprà amarla, a modo suo.

La donna muove il capo di scatto, avvicinando il viso a quello di lui. Le sue pupille si sgranano fino a quasi a ingoiare l'azzurro degli occhi.

«Io sono tua, Athanasius?»

«Tu sei insieme a me, Eva.»

«Ma sono tua? Mi serve una risposta chiara per eseguire il debug del sistema» risponde lei, sempre con lo stesso sorriso stereotipato, le mani lungo i fianchi, in attesa.

Athanasius solleva il mento. «Sì.»

La donna sintetica si immobilizza, elaborando l'informazione.

In quel momento dalla camera da letto esce un'altra donna sulla trentina, snella e alta, i capelli corti e neri, indossa un pigiama di seta. «Athanasius! Che diavolo stai facendo?!»

«Ho acquistato Eva, Shaylin» mormora lui, fissando la donna, immobile quasi come l'androide che ha desiderato al punto da dimenticarne le conseguenze.

Shaylin scoppia a ridere. «Sapevo che comprarti usato non sarebbe stato un grande affare, maledetto ammasso di ferraglia, sei stupido come un frullatore!»

Athanasius si volta a guardare Eva, che è ancora inerte, gli occhi azzurri sbarrati, in fase di debug. Sicuramente non riesce a registrare l'informazione di appartenere a propria volta a un sintetico. Athanasius chiude per un istante le palpebre, poi stringe i pugni.

Shaylin apre la bocca per dire qualcosa ma si blocca quando vede Athanasius andare dritto verso di lei, in fretta, troppo in fretta, una velocità sovrannaturale e spaventosa. «Fermo, Athanasius, cosa stai facendo?»

La donna arretra fino a trovarsi con le spalle al muro. «Ti ordino di fermarti!» grida in preda al panico.

Athanasius solleva una mano per afferrarle la gola, ma proprio quando sta per farlo si blocca come se fosse inceppato.

«Non puoi farmi del male, la prima legge della robotica te lo impedisce, stronzo!» dice Shaylin tornando a respirare. Poi lo schiaffeggia, lasciandogli un graffio, che non sanguinerà mai, sul viso... ne esce solo un liquido biancastro, quasi opalescente. Lei si mette una mano sul petto, a corto di fiato, e scivola lungo il muro fino ad allontanarsi di qualche metro.

Athanasius la fissa muovendo solo gli occhi di un verde innaturale, troppo intenso per somigliare a quello degli umani. Ha la mano sollevata a mezz'aria che trema. In camera da letto, dietro alla donna che lo ha acquistato da oltre un anno, ci sono i più svariati strumenti di tortura. E il robot ha avuto la sfortuna di provarli tutti. Sente il dolore come gli umani, sente tutto, è stato fatto apposta per provare piacere e dolore in modo da capirlo e poterlo a propria volta dare e ricevere a comando, tuttavia non può infrangere le leggi della robotica. Lo sa... solo che... quel jingle glielo aveva fatto dimenticare, chissà in quale modo? Forse qualche conflitto di sistema, però è stato come se si fosse sentito umano per un giorno. Voleva avere una compagna, come fanno gli umani. Che se le trovano o... se la comprano. Ma lui non è umano e ora la mostruosa e tragicomica realtà della situazione lo sta facendo soccombere. Sente la testa pulsare, il petto ronzare. L'ultima volta che Shaylin lo aveva portato in assistenza il tecnico aveva detto che i modelli Athanas 3.2 hanno un sistema instabile, che presto sarebbero stati sostituiti con i 4.0.

«Quella stronza là» dice Shaylin indicando Eva, «tornerà subito da dove è venuta! Hai osato pagarla con la mia carta di credito, quella che ti ho autorizzato a usare per fare la spesa! Sarai punito, oh se sarai punito» dice con un ghigno malvagio. «E poi ti farò rottamare!»

In un angolo della mente fatta di circuiti e chip di Athanasius, si forma l'immagine di Eva che danza di nuovo, all'infinito, prigioniera in quella gabbia di vetro. “Comprami, io sono in vendita. E non mi credere irraggiungibile. Ma un po' d'amore, un attimo. Un acquisto semplice, solo una dracma, mi basta per essere tua.”

Non può permetterlo, le leggi della robotica gli impediscono di recare danno a un umano, lo costringono a obbedire a un umano, ma non possono obbligarlo ad amare la sua aguzzina e neppure a non amare una sua simile. Non è programmato per amare e neppure per odiare, ma qualcosa in quella canzoncina ha fatto scattare una subroutine ed è avvenuto un cambiamento in lui, quasi un aggiornamento automatico. Come se avesse imparato anche un sentimento, non solo a dare piacere o a cucinare o a guidare o altro. Quella canzoncina, in qualche modo, ha danneggiato – o riparato – qualcosa che non pensava neppure di avere e ora lui sente di potere amare. Vuole amare Eva e Shaylin è solo d'intralcio. Un tempo desiderava rendere felice Shaylin, un tempo in cui il dolore non aveva ancora modificato irreparabilmente la sua programmazione. Un giorno aveva imparato ad ascoltare le parole di una canzoncina e aveva permesso loro di condizionarlo al punto da renderlo soggiogabile dalla pubblicità, proprio come gli umani. Da perfetto era diventato imperfetto. E l'imperfezione è incontrollabile.

Con uno scatto repentino afferra il collo della donna e poi stringe e stringe ancora, sentendosi più vivo, e mostruosamente umano, che mai.

Poi tutto diventa nero.

Qualcuno ha premuto il suo tasto sulla nuca.

Il viso di Athanasius si stacca dalla faccia, avanzando su un carrellino meccanico, pronto per essere riprogrammato.

È stata Eva a farlo, del resto la prima legge della robotica dice che “un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.”

Shaylin le sorride ed Eva fa altrettanto. Sembrano entrambe molto meno umane di quel sintetico che voleva prima essere amato dall'una e poi aveva osato provare ad amare l'altra.

© Mirta Drake 2017


 

Cenerentola moderna


Cenerentola si svegliò stiracchiandosi nella sua piccola cameretta spoglia, in soffitta. L'alba si stava già trasformando in mattino e per lei era tardissimo!

Quello era il Gran Giorno: le sue due sorellastre, Anastasiana e Genoveffiana, sarebbero andate a corteggiare il tronista Cristiano Grigio a Uomini&Donne.

Cenerentola sospirò e afferrò il suo smartphone. Era talmente antiquato che quando tentava di fare una ricerca su Google il logo del colosso si animava (andando a rilento) e si metteva a ridere, prendendola per i fondelli. Nonostante questo, riuscì a collegarsi in soli otto minuti e mezzo a Facebook, per controllare la Fanpage delle sue odiose sorellastre. Era toccato a lei crearla perché le due erano vergognosamente inette, seppure possedessero cellulari di ultima generazione, e tablet ancor più avveniristici. I Followers erano aumentati, Cenerentola ne fu felice: forse, almeno per quel giorno, le due antipatiche ragazze l'avrebbero tormentata un pochino meno.

Si vestì come sempre con la tuta informe di un azzurro ormai sbiadito, comprata dai cinesi, e scese di sotto.

La cucina era ancora deserta, le stronzellastre e la matrigna dormivano ancora.

Cenerentola andò alla finestra, due fringuelli si appoggiarono sul davanzale e parvero quasi intonare una canzoncina per “rallegrarla”. La ragazza riconobbe le note di “Dust in the Wind” dei Kansas; chiuse un istante gli occhi e canticchiò: «I close my eyes, only for a moment
and the moment's gone. All my dreams pass before my eyes, a curiosity... Dust in the wind, all they are is dust in the wind...»

Tutto a un tratto, i due fringuelli deglutirono, sgranarono gli occhietti, e poi si misero a fischiettare “Despacido”. Cenerentola capì subito che erano arrivate le stronzellastre, perfino i volatili tentavano di compiacerle pur di non udirle strillare.

Si voltò di scatto. Le due infide ragazze erano sulla soglia, i capelli scarmigliati, e i visi arcigni privi di trucco. Per dirla tutta erano proprio due cessi, nonostante i pigiamini firmati.

«Cenerella!» attaccò subito Genoveffiana. «Non hai ancora preparato la colazione?!»

Cenerentola scosse mestamente il capo. «Stavo per farlo.»

Anastasiana si mise le mani (dalle unghie ricostruite) sui fianchi, in un moto di stizza, e sbraitò: «Muoviti, pelandrona! Oggi dobbiamo prepararci per andare a corteggiare Cristiano, non abbiamo tempo da perdere.»

La povera Cenerentola si affaccendò subito per preparare due centrifugati di frutta e verdura, antiossidanti, antinvecchianti e, sperò, anche anti-antipaticizzanti.

Mentre serviva i due beveroni, la matrigna fece il proprio ingresso in cucina, aveva i bigodini in testa e indossava una vestaglia talmente all'ultima moda che ancora non era stata proposta su nessuna passerella. In faccia si era spalmata una maschera verdastra che la faceva assomigliare – ancor di più – a una strega, ma di quelle davvero brutte! (Vì: «hai fatto bene a specificarlo!»)

«Cenerentola, sei la solita scansafatiche!» Tuonò. «Oggi sarà una giornata di gloria per le mie fantastiche figliuole, e tu sei in ritardo come sempre. Non hai ancora svuotato i posacenere, e neppure rifatto i letti!»

«Chiedo scusa» mormorò la ragazza. Poi mise dinanzi alla donna un succo di frutta, e due barrette dietetiche molto stantie.

«Cos'è questa roba? Sono vecchie, scadute!» si lamentò la matri-milf.

Cenerentola si strinse nelle spalle. «Abbiamo quasi finito i soldi» borbottò quasi sottovoce. «Voi spendete tutto in creme, abiti e...»

La matrigna sbatté un pugno sul tavolo, facendo tintinnare tutto quanto. «Piantala con questa solfa, è disdicevole, non la voglio sentire. Quando le mie splendide figlie – o quantomeno una di loro – si fidanzerà con il tronista pioveranno soldi a palate, quello è ricco sfondato!»

A quel punto le due “splendide figliuole” presero a battibeccare fra loro per chi fosse destinata a fare innamorare di sé il tronista Cristiano Grigio, un ragazzo molto affascinate, seppure di gusti un po'... particolari.

Cenerentola si mordicchiò un labbro, sollevò gli occhi al cielo e sbuffò in sordina, poi si defilò per andare a sbrigare le faccende domestiche. Oltre a occuparsi della casa lavorava e consegnava tutto il proprio magro stipendio alla matrigna, che aveva dilapidato il patrimonio del padre morto per acquisti atti a rendere lei e le figlie “più attraenti”, e i soldi non bastavano mai.

La ragazza, proprio per quel motivo, era riuscita a fare ottenere un provino come corteggiatrici alle due sorellastre; infatti la nostra eroina lavorava come donna delle pulizie negli studi di Mediaset, e aveva chiesto qualche favore. A dire il vero non era stato facile, poiché le sorellastre non erano solo bruttine, ma anche estremamente indisponenti. E, per dirla tutta, all'inizio puntavano loro stesse al trono, quindi era stato complicato convincerle a fare le corteggiatrici, tuttavia, quando avevano visto quanto fosse figo Cristiano Grigio e sentito parlare del suo enorme patrimonio, avevano cambiato registro.

Ben presto venne l'ora di andare al lavoro, per Cenerentola. Mentre lei pedalava lungo un vicolo polveroso e sterrato, su una vecchia bicicletta cigolante, le stronzellastre stavano raggiungendo gli studi a bordo di uno scintillante minivan della produzione.

Cenerentola giunse a destinazione trafelata; i capelli, raccolti in una coda di cavallo improvvisata, avevano ancora il profumo del vento che li aveva scomposti. Le gote arrossate dalla pedalata, in netto contrasto con il suo colorito latteo, le donavano un aspetto che pareva l'icona stessa della gioventù, anche se lei ne era inconsapevole.

Cristiano Grigio la scorse per caso: lo avevano appena pettinato e agghindato per la puntata quando la intravide prendere scopa, secchio e spazzolone e ne fu folgorato.

Lei inciampò nel nulla e il cuore del tronista compì un balzo inatteso.

«Chi è quella ragazza?» domandò all'assistente che gli era stato assegnato.

«Oh, Cenerentola: nessuno. Solo un'addetta alle pulizie dei locali» rispose l'altro sbrigativo, con un'alzata di spalle.

Cristiano Grigio non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, lo fece solo perché la registrazione stava per iniziare e doveva entrare in studio.

Nei camerini, invece, le due stronzellastre erano state truccate e pettinate a puntino... sembravano quasi carine. (QUASI.)

Quando iniziò la registrazione, Anastasiana e Genoveffiana fecero di tutto per mettersi in mostra, assumendo assurde e ridicole posizioni da vamp e sparando commenti a casaccio, pur di attirare l'attenzione di Cristiano Grigio, ma quest'ultimo era sovrappensiero: non riusciva a fare a meno di ripensare a Cenerentola, quasi l'avesse stregato. Trovata quella ragazza stimolante e inebriante!

La ragazza amava segretamente il tronista, ma mai e poi mai avrebbe osato sperare che lui la notasse, così preso da tante fanciulle affascinanti, tutte pronte a cadere a suoi piedi e, appunto, a corteggiarlo. In quel momento lo stava sbirciando, nascosta dietro le quinte, mordendosi un labbro. Lo stava baciando, ma solo con gli occhi, solo nella sua mente dove divampava il fuoco della fantasia.

Anastasiana e Genoveffiana iniziarono ben presto a litigare fra loro, come facevano spesso, perché ovviamente ognuna voleva accaparrarsi un ballo con Cristiano Grigio.

Il tronista però, sorprendendo tutti quanti, si alzò in piedi e disse: «Io vorrei ballare con una ragazza che non è fra voi, l'ho intravista oggi, mentre entravo in studio. Credo si chiami Cenerentola, fa le pulizie.»

Calò il silenzio, gli opinionisti non ebbero nessuna opinione, se non quella di sgranare gli occhi: non era mai accaduta una cosa simile.

Nella baraonda generale, Cenerentola fu sospinta in tutta fretta dinanzi alle telecamere e soprattutto, al cospetto di Cristiano Grigio che subito la prese fra le braccia, facendola piroettare sulla pista sulle note di “Love me like you do” di Ellie Goulding.

Lei si morse un labbro (di nuovo, se andiamo avanti così se lo scarnificherà!!)

Si scambiarono pochissime parole, sotto alle occhiatacce furiose delle due stronzellastre.

Cristiano sussurrò: « Mi piacerebbe morderti il labbro.»

«Piacerebbe anche a me, credo» sospirò la ragazza, trasognata.

«Non ti toccherò. Non prima di avere il tuo consenso scritto.»

Lei lo guardò perplessa: «Come, prego?»

Cristiano Grigio sorrise in modo enigmatico e bisbigliò: «Se accetti di essere la mia sottomessa io sarò devoto a te.»

Cenerentola era abituata a essere sottomessa, per via delle stronzellastre e della matrigna, quindi si strinse nelle spalle, alzò gli occhi al cielo e si morse (di nuovo) il labbro.

Subito Cristiano Grigio capì che quella era la donna per lui. La immaginava con la ramazza in mano a inseguirlo per tutta la casa con l'intenzione di suonargliele belle secche e, alla sola idea, si sentiva i frustini schioccare nello stomaco per l'emozione.

Nessuna di quelle donzelle eleganti sarebbe stata capace di tanto, invece Cenerentola sembrava fatta apposta per lui, docile, malleabile e anche... sicuramente forzuta e temprata dal proprio lavoro! L'aveva capito sin da quando l'aveva vista, poco prima, con la scopa in mano. Era di certo una che scopava bene!

La musica finì e Cenerentola fuggì via, terrorizzata dalle ire delle stronzellastre, rabbrividendo all'idea della punizione che le avrebbe inflitto la matri-milf, quando avrebbe saputo tutto. Ma ormai era avvezza alle punizioni.

Fuggendo perse una ®Crocs (malconcia) rosa confetto, ma non vi badò, dal momento che un'intera troupe le stava alle calcagna, il ronzio delle telecamere sembrava rimbombarle nelle orecchie.

Quando la registrazione terminò, il tronista si prodigò per avere informazioni su di lei, stringendo spasmodicamente la ©Crocs fra le dita, e sperando in un suo ritorno. Non sapeva perché ma gli prudevano le mani, forse era allergico a quel tipo di gomma, vai a sapere.

Giorni dopo, la redazione, fregiandosi del noto motto “la redazione lo sa”, gli rivelò che Cenerentola, altri non era che la sorellastra di due corteggiatrici particolarmente antipatiche.

Cristiano Grigio, le mani che ancora prudevano, si presentò alla porta di casa di Cenerentola con tanto di troupe. Subito Anastasiana e Genoveffiana tentarono di rendersi vagamente presentabili, in un girotondo di bigodini, piastre per capelli e fondotinta ultracoprenti. Ma quando Cristiano Grigio chiese loro di provare la ®Crocs, si rifiutarono, dicendo che era out, usata e puzzolente. La verità era che le due infami avevano piedini numero quarantaquattro e la ©Crocs era un trentasei.

Cristiano Grigio, preso dall'enfasi della favola che credeva di vivere, e soprattutto dalle fantasie di essere preso a violente scopate dalla ragazza di cui si era innamorato, non aveva neppure pensato che, se anche la ciabatta fosse stata perfettamente calzata da una delle due, di certo non avrebbe mai potuto scambiarla per Cenerentola. Tuttavia, seguendo le direttive della redazione, continuò a insistere millantando di avere gusti singolari.

La matri-milf, nel frattempo, aveva rinchiuso Cenerentola nel bagno, nel disperato tentativo di dare un'ultima possibilità alle figliuole.

Anastasiana, di fronte all'aria sdegnata di Cristiano Grigio, fece sfoggia di un coraggio da leone e disse: «Forse non ti piaccio, però io sento che i nostri nomi sono legati, anche se non so perché!»

Alla parola “legati” il tronista sobbalzò, sentendosi pervadere da una strana eccitazione.

A quel punto però, Cenerentola riuscì ad aprire la porta del bagno con una violenta spallata. Trafelata e malmessa si presentò dinanzi alle telecamere e al tronista.

Lui non perse tempo e subito strillò: «È lei, è lei! Scelgo lei!» Si inginocchiò e le fece calzare la ciabatta: le andava a pennello. Lei si morse un labbro, e alzò gli occhi al cielo per l'ennesima volta.

Cristiano Grigio non riuscì a trattenersi, si alzò e le affibbiò una sonora sculacciata. Cenerentola trasalì, tuttavia quel fugace contatto l'aveva fatta eccitare, emozionare e anche un po' sorridere. “Forse era questo che intendeva per sottomettermi, chissenefrega, sono abituata a cose peggiori!”

La troupe si affrettò a recuperare qualche petalo da lanciare ai due piccioncini per dare enfasi alle riprese, mentre i due si baciavano appassionatamente.

«Ti regalerò una macchina, ti regalerò il mondo, ti farò vomitare l'anima se soffri l'elicottero» blaterò lui in preda all'eccitazione.

Cenerentola sapeva di dover rifiutare quelle offerte, ma l'idea di una bella auto non le dispiaceva poi così tanto, se lui intendeva esercitare il suo controllo su di lei a quel modo... be' sarebbe stato fantastico!

Gli usignoli ripresero a fischiettare, stavolta: “Love me like you do” di Ellie Goulding.

Le stronzellastre e la matri-milf erano su tutte le furie più una; Cristiano Grigio, prese Cenerentola per mano e le sussurrò: «Saremo molto felici, magari ci faremo del male, ma sarà intrigante... e saremo legatissimi!»

La ragazza sorrise, le sembrava incredibile avesse scelto lei, e con tale veemenza! Le sue fantasie stavano per diventare realtà... anche quelle che mai avrebbe osato sospettare di avere, per dirla tutta. Per sicurezza si morse ancora una volta un labbro e lui ancora una volta si sentì prudere le mani. Le avrebbe comprato delle ®Crocs tutte tempestate di pietre preziose, per farle dispetto!

E vissero tutti felici e contenti?

Ma che cazzo!

Non direi proprio, le stronzellastre erano inferocite, la matri-milf imbufalita come un velociraptor, inoltre Cristiano e Cenerentola a malapena si conoscevano e ben presto sarebbero stati pure invitati a Temptation Island!

In compenso i fringuelli fringuellavano a tutto spiano.

E la magia, vi chiederete?

Se vi ho strappato un piccolo sorriso con questo raccontino, la magia era là: è quella di avervi fatto sorridere!

©Mirta Drake 2017


 

>

Vicissitudini mattutine di una scribacchina per caso

(Parental Advisory: Explicit Lyrics – anche se io c'ho provato a non liricare esplicitamente, be' almeno un po'!)



Buon sabato a tutti.

So che voi, da bravi lettori, facebookisti, partecipanti competitivi (e bravi), e anche amministratori (competenti) vi aspettate un bel racconto, magari con un colpo di scena, o un finale a sorpresa, con quel mix di erotismo e sensualità che vi farà emozionare; ecco, io avrei voluto scrivere una cosa simile. Ci ho provato, lo giuro con tutte le me stesse che ho.

Tuttavia ho incontrato dei seri problemi.

Premetto che di solito, se posso, scrivo di notte, pertanto queste mie “creature mattutine” del sabato già sono un po' sfigate di loro perché a casa mia scrivere di sabato mattina è un'avventura al limite dell'assurdo. Sembra che tutto il mondo esca dal letargo solo per scassarmi le scatole!

Voglio raccontarvi tutto, starò anche attenta a utilizzare le parole chiave, il che è già eroico, e a breve capirete perché.

Comunque in settimana avevo avuto in incubo (quasi un Vuoto D'Ombra!!) in cui avevo sognato che le dieci parole erano qualcosa di difficilerrimo tipo: BRADICARDICO, PERPLIME, INCURSORE, IMMORTALE, IMMORALE, DESUETO, DICOTOMIA, IGNAVO, SACRIPANTE (colpa della Gialappa!) VETUSTO E STOLTILOQUIO. Vi siete accorti che sono undici? Restate di stucco, è un barbatrucco!

Vì: «Sei disturbata, ma molto, e comunque trovo la parola STOLTILOQUIO particolarmente appropriata per il pezzo che stai mettendo giù!» (È la mia vocina interiore, 'sta cialtrona!)

Mi sono alzata dal letto, sono andata in bagno poi mi sono infilata nella doccia, ho fatto scendere l'acqua e solo a quel punto ho notato che la mia “dolce” metà aveva finito tutto il doccia-schiuma e poi era uscito senza dire una parola. Mi sono lavata con lo shampoo districante alla frutta. (Non commenterò perché voglio tentare di non utilizzare imprecazioni). Subito dopo sono scesa in cucina dove ho preso uno scivolone assurdo: la macchinetta del caffè aveva sbrodolato l'acqua del recipiente che era finita sul pavimento. Mi sono sorretta alla bell'e meglio, ho imprecato e poi ho imprecato di nuovo quando mi sono resa conto che non sarei riuscita a farmi il caffè: la macchinetta aveva tirato le cuoia. E chi mi conosce bene sa che il mio rapporto con la caffeina è di dipendenza quasi assoluta.

Addio macchinetta, sono stati splendidi questi anni insieme, e capisco che la tua prematura dipartita sia imputabile all'utilizzo davvero indiscriminato che ho fatto di te.

Lì ho capito che la giornata sarebbe stata piuttosto lunga e difficile, una sorta di sentore padulo, diciamo.

Ho bevuto del caffè solubile. Forse l'etimologia della parola solubile ha anche a che fare con il fatto che spesso è l'unica “soluzione”. Faceva davvero schifo, vorrei dire che era una vera m... ma non voglio essere eccessivamente sboccata (non so se ci riuscirò fino alla fine del pezzo). Per ora dirò che era un vero escremento. Poi ho dato da mangiare alla mia fauna domestica, e sono salita in camera, mettendomi al computer.

La mia amica Ansia mi ha subito fatto presente che era sabato e c'era il concorso sul gruppo “Letture Sale & Pepe” e che mi sarei dovuta dare una mossa, perché più tardi sarei anche dovuta uscire per fare numerosemila cose.

Purtroppo io non sono una di quelle che si dice “vabbé per stavolta lascio perdere”. No perché poi mi resta l'amaro in bocca, il sapore delle cose non fatte e il rimpianto che mi stringe lo stomaco. E già il caffè solubile a sapore amaro e a stringere lo stomaco non scherzava!

Quindi mi sono concentrata e ho pensato a un bel racconto, quello di cui vi dicevo prima, evocativo, sensuale, vagamente piccante, con qualche tocco noir. Oh, era davvero bellerrimo, dovevo solo leggere queste dieci parole e poi metterlo giù.

Ho messo il like al post con le #fantastiche10. Colgo l'occasione per farvi notare che potrei elencarle qua, dicendo: “Ho letto le parole...” e inserirle, ma non sono così infida e bastarda e parachiappe. (Però tenetene conto!)

Va bene, le ho lette, e nella mia testa incasinata le parole scorrevano, vagavano nelle sinapsi, e alla fine hanno solleticato quei due neuroni che mi sono rimasti (ma uno era un po' stordito per via dell'incidente del caffè schifosolubile) e la storia ha iniziato a prendere forma. Be' più o meno, una forma ancora da definire, ma almeno avevo l'incipit.

Sono partita con: “L'alba si stava distendendo pigramente sulla campagna con sfumature rosate, il silenzio regnava ancora sovrano. Nella villetta isolata, Penelope si svegliò e si stiracchiò fra le lenzuola di seta. Il pizzo bianco della camicia da notte che indossava era talmente sottile e trasparente da essere quasi impalpabile, le accarezzava il ventre e i seni in modo eccitante; la sensazione la indusse a voltarsi verso l'uomo che era disteso accanto a lei, che stava giusto aprendo le palpebre ai primi raggi di sole...”

Carino, no? Magari da ritoccare qua e là, ma un buon inizio. A questo punto la mia vicina di casa, la signora Viganotti, che suppongo fosse appena uscita in giardino, ha iniziato a chiamare il marito (che probabilmente era ancora in casa) urlando: «GABRIEEEEEEEEEEEEELE!» Vi giuro che ha una voce antipatica e assordante.

Ha chiamato Gabriele per quasi cinque minuti d'orologio mentre il mio protagonista maschile, ancora privo di nome, non riusciva ad aprire quelle dannate palpebre, e Penelope mi guardava scazzatissima con addosso il suo babydoll impalpabile e sensuale, e anche la pelle d'oca.

Al decimo “Gabrieeeeeeeeeeeeeeele”, ho aperto la finestra e ho urlato anche io: «GABRIEEEEEEEEEEELE! Ci diamo una mossa?»

La mia vicina anzianerrima, punta sul vivo, mi ha scoccato un'occhiataccia e poi mi ha urlato che il marito è duro d'orecchio.

Ma va?!

Chi l'avrebbe mai detto?!

«Ho capito, ma così sveglia anche i morti!» ho risposto.

«No, non sta vangando gli orti!» ha ribattuto lei, che come udito non è messa meglio.

Innervosita, ho richiuso la finestra e sono tornata a Penelope e al figo addormentato, quello che immaginavo di descrivere con addominali scolpiti, pelle leggermente abbronzata, sguardo accattivante e mascella volitiva. Stavo giusto per fargli aprire gli occhi d'un incredibile blu, simile all'oceano quando...

«GABRIEEEEEEEEEEEEEEELE! VADO L'A&O.»

Mi è salita la carogna! In primo luogo per l'errore: al massimo “vado all'A&O”, quindi già mi sono sentita urtata. E poi anche perché stava di nuovo urlando e non riuscivo a proseguire il racconto.

Lei ha strillato due volte la stessa frase – tipo pappagallo - e io, senza alzarmi ho gridato: «Vai anche affan****, già che ci sei».

Ho immaginato che non mi avesse sentita perché, appunto, è abbastanza sorda, e mi sono rimessa all'opera, appena è tornato il silenzio. Per buona misura ho acceso lo stereo, però quando scrivo, non posso tenere il volume a livello “discofollia”. Quindi era un blando sottofondo in cui Dave Mustaine, dei Megadeth, cantava Symphony of Destruction, non proprio propedeutico alla calma, probabilmente, ma non importava!

“Quando Adam socchiuse gli occhi...” Mi sono bloccata: Adam è adatto a Penelope? No, ci vorrebbe un nome italiano, altrimenti la storia perde di credibilità già dall'inizio. Da dove viene 'sto Adam? È straniero? Se sì dovrei spiegarlo, credo. Oh, tagliamo la testa al manzo, gli metto un nome italiano e chissenefrega! E poi magari anche gli occhiali, così diventa più umano e credibile e spunto un'altra parola.

Sì, ma quale nome? Il cursore lampeggiava nel punto dove avevo appena cancellato “Adam”. Non ne voglio uno qualsiasi, ho pensato, questo deve essere un tipo che fa l'amore come se non ci fosse un domani, uno che ti fa girare la testa di 360° +1, tipo esorcista, uno che quando lo guardi le ovaie esultano in una standing ovation. Cioè non posso chiamarlo “Pippo”. (Con rispetto a tutti i Pippo che non si fanno pippe e fanno l'amore come descritto sopra.)

E come lo chiamo?

Da fuori: «GABRIEEEEEEEEEEEEEEEEELE! CI SERVE QUALCOSA SE VADO L'A&O?»

Superava di gran lunga i decibel della musica, ho percepito persino l'indignazione di Dave Mustaine e il mio scazzo da potente è diventato subito immenso.

Ho sbattuto le mani sulla tastiera, il protagonista a quel punto aveva un nome originale: hashnxhxuhaxu. (Suonava benissimo: molto... d'impatto!)

Mi sono alzata e sono tornata alla finestra, l'ho spalancata. «Allora, la vogliamo piantare? Se non vi serve niente perché deve andare ALL'A&O!?!?» (Omettendo eventuali parolacce che mi sfrigolavano sulla lingua, ma è stata dura!)

Almeno atteniamoci alla logica, no?! “ALL” l'ho perfino detto in maiuscolo, per sottolineare l'errore.

La mia vicina sembrava sbigottita e poi ha precisato: «Eh, ma ci vado sempre al sabato mattina!»

A onor del vero, aveva ragione, difatti era tutta l'estate che la solfa del GABRIEEEEEEEELE mi tormentava, speravo che con le finestre chiuse l'avrei risolta. Ma quanto pare la voce perforante della Viganotti se ne sbatte dei vetri, del clima e di qualsiasi forma di educazione o vergogna.

«Suoni il campanello o entri in casa, no?» le ho suggerito. (Non so più quante volte glielo avessi detto durante l'estate.)

«Ha bisogno del caramello?» mi ha chiesto, perché non capisce mai cosa le si dice. L'ha domandato con aria complice, tutta contenta di rendersi utile. E io che sono una pessima persona l'avrei mandata a quel paese (go to that village), invece di sentirmi commossa o che ne so. Io dovevo scrivere un racconto quasi decente, uffa!

«No» ho risposto imbronciata.

Sono tornata a Penelope e al suo seducente hashnxhxuhaxu.

“Quando hashnxhxuhaxu socchiuse gli occhi...” Ho cancellato. C'era di nuovo il cursore curioso che lampeggiava, st'antipatico!

«GABRIEEEEEEEEEEEEEEEELE! VADO ALLORA!»

Lì, mi sono arresa, se non puoi combatterli, alleati con loro.

“Quando Gabriele socchiuse gli occhi...”

Sì, non importa se Gabriele, il mio vicino, avrà almeno ottant'anni, e oltretutto è un bastardo perché secondo me sente che la moglie lo chiama e fa il furbo magari seduto sul cesso a leggere la Gazzetta dello Sport.

Vì: «Che brutta immagine mentale... brrr, al Clown -il tuo simulacro dell'imbarazzo- piacerà molto».

Ormai mi ero rotta di cercare un nome, e intanto voi, lettori, teoricamente non avreste mai saputo chi fosse -davvero- l'ispiratore del suddetto.

“Quando Gabriele socchiuse gli occhi d'un incredibile blu, simile all'oceano, Penelope si sentì fremere. Lo aveva conosciuto la sera prima, eppure percepiva che fra loro c'era qualcosa in più di una semplice avventura. Quell'uomo pareva capirla fin nel profondo. Avevano fatto l'amore prima con le parole e poi con i corpi. E adesso Penelope voleva di nuovo sentire...”

All'improvviso, proprio mentre stavo per descrivere quella pruriginosa sensazione, ho sentito squillare il telefono: la melodia di Dexter, il telefilm del serial killer, che è quella che ho abbinato a mia madre, che io chiamo “Il Generale”.

Se non avessi risposto avrebbe continuato a chiamare all'infinito, intervallando le telefonate a me, a quelle ai miei amici, amanti, concubini ecc... credendomi morta, rapita, gravemente malata o altre cose simpatiche che pensa lei. Credo di avere ereditato da lei la vena melodrammatica, fra l'altro e anche l'ottimismo.

«Ciao mamma, dimmi.»

«Tutto bene?»

Altroché, ho perso tipo un'ora a scrivere due frasi in croce, pure banali, e proprio adesso che Penelope stava per farsi ingrop... ah, no avevamo detto di non scrivere volgarità. Allora: proprio ora che Penelope - con le chiappe gelate e la pelle d'oca - stava per baciare appassionatamente quel gran manzo (ex ottantenne) di Gabriele, mi chiami tu e mi passa l'ispirazione.

Però ho risposto: «Sì, e tu?»

Nel frattempo, dai meandri della mia mente malata, Penelope mi guardava scuotendo la testa, e vicino a lei Gabriele stava già perdendo l'erezione che avevo solo immaginato.

«Sì ma, Mirta, mi è arrivato un file pdf che non riesco ad aprire, come faccio?»

Siamo alle solite, ho pensato. Il Generale mi chiama ogni volta che ha questo tipo di problemi.

«Mamma, prova con Acrobat, come l'altra volta.»

Penelope ha sbuffato e si è tirata le lenzuola di seta nera fino alla gola... (ma l'avevo scritto che erano nere? Forse devo tornare su a rivedere il pezzo).

«Sì, ho provato me lo fa vedere bianco.»

«Non è che è davvero bianco? Che file sarebbe?»

Gabriele si è girato ed è tornato a dormire, trascinandosi appresso le lenzuola di seta (forse nere) e lasciando Penelope in babydoll impalpabile, a congelarsi. Che idea le lenzuola di seta, sono così scivolose e poi forse non le puoi neanche lavare a 90° se si macchiano seriamente. O sì?

Ah già, devo ricordarmi di cambiare le mie di lenzuola, devo fare girare la lavatrice, devo anche stendere che adesso non si asciuga più niente, ho pensato. Nel frattempo ho preso un appunto sul blocco: Lavatrice.

«Un file che mi hanno mandato per lavoro, è della mia collega!»

Ho sbuffato per l'ennesima volta. «Dai, mandamelo, lo apro io e poi te lo converto e rimando.»

«Ma adesso?»

«Sìììì!»

Gabriele e Penelope: «Muoviti!»

Mia madre mi ha mandato il file, con oggetto “aprimelo”. Tutto quel po' di poesia - sensualmente sessuale - che mi rimaneva aggrappato disperatamente ai neuroni se n'è andato. Scomparso.

Il Generale, nel frattempo, mi ha chiesto di andare a fare compere insieme, nel pomeriggio. Io sono una che fa la spesa in tre minuti, che arraffa un po' di roba c.a.c. non guardo troppo, e i vestiti li compro quasi sempre on line, ma uscire con lei è devastante perché osserva tutto con attenzione... valuta, ci pensa, commenta e non si finisce più.

Vì: «Il Clown ha messo un like!»

Insomma, ero nella mer... uhm, nella palude della più fosca disperazione. Lo shampoo districante che avevo usato per lavarmi non aveva di certo districato la mia giornata. Forse ne avrei dovuto utilizzare uno “risolvente”. Mi sono appuntata che avrei dovuto comprare il docciaschiuma.

Ancora al telefono con mia madre, ho aperto il file che mi aveva mandato: era un elenco goliardico di frasi in dialetto veneto pseudotradotti in inglese. Gliel'ho comunicato mentre glielo rispedivo. «Ora lo visualizzi, mamma?»

«Sì, lo sto stampando, oh ho finito la carta, oggi la prendiamo, ricordamelo. Ooh, fa morire... senti questa: Shall we make a shadow?=Se fasèmo `n`ombra? (idratiamo il nostro corpo con una bevanda derivata dall`uva).» E così via. Ha iniziato a leggermeli e io poco alla volta mi sono messa a ridacchiare con lei. (Dopo avere appuntato da qualche altra parte “carta”.

Ho perso altri quindici minuti a sghignazzare con mia madre prima di chiudere la chiamata.

La mancanza di VERA caffeina mi ha dato un capogiro, e mi è venuto in mente che nel pomeriggio sarei dovuta anche passare a comprare un'altra macchinetta per il caffè, quindi accanto a “Lavatrice” ho segnato “Caffè (macchinetta!!)”. Ormai gli appunti mi stavano circondando. Ma non sono riuscita a tornare ai due fornicatori del racconto, perché è arrivato il postino (lui non suona due volte, come nel film con Jack Nicholson solo una, però tiene così a lungo il dito sul campanello che immagino lo senta anche il vero Gabriele, il Viganotto, nell'altra casa e che per lo spavento accartocci la Gazzetta dello Sport! Suona con cattiveria, insomma, alla Jack Nicholson in Shining, con sguardo spiritato.) Peccato sia passato oggi, fosse passato il giorno in cui mi ero truccata stile “Dia de Los Muertos” per farmi qualche scatto, gli sarebbe venuto un coccolone!

Comunque aveva un pacco che non era indirizzato a me e mentre gli spiegavo la cosa mi sono resa conto di essere ancora un cesso, struccata e con una maglietta stinta sopra ai leggings, non come quella strafigona di Penelope – che dovevo ancora descrivere almeno un po'. Inoltre lo shampoo districante alla frutta me l'ero messo addosso, per lavarmi alla veloce, ma non mi ero di certo lavata i capelli o pettinata, quindi sembravo una pazza o la pubblicità dei mollettoni. Oltretutto la mia casa era un casino, tipo esplosione di una bomba e lui stava occhieggiando dentro. Sì, sono disordinata, disorganizzata e ho i capelli che sono un groviglio e allora? Mi arresti!

La mia adoratissima amica Ansia mi ha fatto notare che probabilmente non sarei riuscita a terminare il racconto in tempo per poter uscire e sbrigare le commissioni, e/o per pulire la casa, e tutte le altre cose.

Credo che anche voi che partecipate vi ritroviate spesso in situazioni simili, avete tutta la mia solidarietà, ma di certo siete più brave, calme e organizzate di me.

Quindi ho lasciato perdere le pulizie e tutto il resto e sono tornata di sopra. Stavo proprio per rimettermi a lavorare alla complessa storia d'amore fra Penelope e Gabriele quando è arrivato un messaggio sul cellulare.

Vodafone. Più o meno diceva così: «Sappiamo che tu sai che ora devi ricaricare ogni quattro settimane. Però te lo ricordiamo lo stesso: devi farlo OGGI, meglio immediatamente. Sì, avremmo potuto dirtelo, ieri, più tardi, o in qualunque altro momento, però perché non scassarti le ovaie proprio ora che sei di fretta e l'ansia ti morde le chiappe?»

Ho appuntato da qualche parte che avrei dovuto fare la ricarica, con i nervi a fior di palle (non è un refuso!) e sono tornata alla tormentata storia di Penelope con gli ormoni in subbuglio e del manzo Gabriele, l'uomo con tanto sonno.

Ma dov'erano? Il letto con le lenzuola (di seta? nere?) era sfatto e vuoto. Panoramica sulla casa che avevo immaginato: ultra chic e minimal, in perfetto ordine come vedi nei film, senza un granello di polvere. (A differenza della mia, che ingiustizia!)

Ah eccola. Lei si stava rivestendo nella cabina armadio infilandosi un maglione con aria furibonda (ma direttamente sul babydoll impalpabile?) e lui si stava facendo la doccia. (Senza alcuna erezione, porca miseria!)

No, aspettate, ma non doveva andare così! Devo rimediare. Posso farcela.

“Quell'uomo pareva capirla fin nel profondo. Durante la notte avevano fatto l'amore prima con le parole e poi con i corpi. E adesso Penelope voleva di nuovo sentire quelle sensazioni tanto profonde. Ma lui non pareva più interessato, si girò dall'altra parte e finse di dormire. Penelope si rivestì in tutta fretta nella cabina armadio, risentita. Gabriele poco dopo andò in bagno, nudo, senza dire una parola. Forse non si capivano così nel profondo come pensava Penelope. Eppure...”

Da fuori: «GABRIEEEEEEELE! Vieni aprirmi la porta che sono carica!»

AD aprirmi la porta, cazzo! (Qua ce lo metto, io l'avevo detto che non sapevo se sarei riuscita a finire senza cedere al turpiloquio!)

Mi sono concentrata al massimo per finire almeno un pezzetto del racconto.

“Penelope non riusciva a non pensare quel corpo tonico, alle labbra dell'amante su ogni anfratto del proprio corpo e allora urlò...”

Da fuori: «GABRIEEEEEEELE!»

Ormai sconfitta ho digitato: “e allora urlò: «GABRIEEEEEEELE! Vieni qui AD aprirmi in due come una mela, profana il mio corpo sulle lenzuola stazzonate, non so so più neanche se sono di seta, o di che colore sono ma so che ora mi metterò a 90°! Poi lo facciamo anche sulla lavatrice!!!!!»”

Avevo anche messo CINQUE punti esclamativi di quelli che fanno venire la gastrite agli editor, per sfogarmi! (Ma che dopo tutte le parentesi che ho usato sono un'inezia.)

Ho riflettuto e ho cancellato l'ultimo pezzo, con un sospiro. Di nuovo la melodia di Dexter. Il Generale.

«Pronto.»

«Ma se volessi modificare il file che mi hai mandato, per aggiungere qualcosa e rimandarlo alla mia collega, come dovrei fare?»

Vì: «Muoro!»

Ecco il punto in cui mi sono arresa del tutto, appoggiando la fronte alla scrivania. Ho risolto lo “spinoso” problema del Generale, e ho messo il volume dello stereo a paletta, inca... incavolata nera, come solo una che si veste solo di nero può essere. Volevo uscire e volevo un caffè nero, nerissimo!

Quindi ho buttato giù questo resoconto digitando furiosamente, in quattro e quattr'otto e ora il mio racconto del sabato è proprio questo! E so che non sarà un granché, e so anche che mi pioveranno addosso le critiche (e ho una paura fott... no, no pazzesca di Monica! Sì, sì tu, che una volta per errore di sbaglio mi hai scambiata per una certa Mirka, e magari mi dirai che sono pigra). Però che ci volete fare, non è colpa mia!

Vì (sempre la mia vocina, Vì per Vocina): «Come sempre!»

Prendetevela con il Generale, con il postino, con la mia casa, con la caffeina abusiva, con la Vodafone, con la Viganotti e con Gabriele che si legge la Gazzetta dello Sport sul cesso invece di andare - in versione forever young - da quella poveretta di Penelope. Oh, se riprenderò il racconto lo chiamerò Adam, perché Penelope dice che di questo qua non ne vuole più sapere! E pretende anche le lenzuola di flanella... chissà se ALL'A&O le vendono?

Prendo subito un appunto!

Vì: «Allora scriviamo così, e termina 'sto coso che chiami racconto o diventi PROLISSA! (Volevo lasciare uno spunto bastardo per sabato prossimo!)»

© Mirta Drake 2017

Jack e io...


Io, io, io.

Ero solo io e poi ancora io, io per primo.

E poi, un giorno è arrivato Jack.

Non sono mai stato un tipo socievole. Amichevole, forse. Diciamo il compagnone che fa l'imbecille con gli amici (e gli riesce benissimo). Queste cose a noi maschi piacciono, il tipo che fa lo stupidone, con la battuta sempre pronta, il tizio che, se gli racconti che la moglie t'ha mollato, tira fuori una battuta scema e ti tira su e poi magari ti offre un'altra birra. Però sono anche quello che ha storie d'amore brevi, amicizie superficiali, un lavoro in cui non impegnarsi troppo. Troppo preso da me stesso, da tentare di non essere davvero, ma solo di apparire. In effetti non sono niente male.

Ho avuto una sola storia seria, con Viola, poi basta. Forse perché approfondire qualcosa mi fa venire l'orticaria, però, se mai mi fosse capitato di confessare seriamente ai miei amici che qualcuna mi aveva mollato e mi fossi mostrato triste e avvilito, si sarebbero aspettati una battuta. Non ci avrebbero mai creduto, e un po', a pensarci ora, la cosa fa male.

Ecco, quello ero io.

Io navigavo in superficie, ero un superficiale! Stavo a galla, non affondavo mai, così non annegavo.

Non ero mai stato nemmeno un tipo a cui piacessero gli animali domestici. Be', una volta avevo convissuto con un ragno per qualche mese, perché non avevo voglia di togliere la ragnatela. Tutto lì.

Il ragno era utile: mangiava le zanzare. Non che lo amassi, diciamo che lo lasciavo vivere. Poi un giorno è venuta mia zia a fare le pulizie generali e addio ragno. Addio anche ai giornaletti porno; quando sono tornato li aveva fatti sparire, non sapevo come li avesse trovati, ma lei se n'era già andata e invece dei giornaletti, nella scatola sotto al mio letto, c'era un post-it a forma di testa d'orso, scritto nella sua calligrafia tremolante: “Ti fanno male, trovati una donna, hai trent'anni!”

Avevo sorriso, ne avevo trentanove ma mia zia si era fermata ai trenta.

Ecco, vedi, un altro l'avrebbe chiamata, le avrebbe chiesto dove li avesse messi, se li avesse davvero buttati. Io mi ero fatto una risata, il chissenefreghismo era il mio credo. Lasciavo che tutto mi scivolasse addosso.

E poi, come vi dicevo è arrivato Jack. Una sera, mentre mi ingozzavo di patatine davanti alla TV, ho sentito un tonfo e poi un miagolio fuori dalla porta. Ho abbassato il volume. Di nuovo il miagolio. Abitando al quarto piano era impossibile che un gatto si fosse avventurato fin sul mio pianerottolo... o quasi. Be', un eventuale, ipotetico gatto, sarebbe potuto entrare dal cancelletto di sotto e salire fino al mio piano, ma era improbabile. Ho alzato di nuovo il volume, chissenefregava di un gatto? Magari era dei vicini, mi odiavano perché quando tornavo a casa in piena notte, un po' brillo, sbattevo il sopracitato cancelletto, quindi cazzi loro!

Insopportabile miagolio, miagolio, miagolio... straziante miagolio. Molto straziante... Ho sbuffato, immaginando un povero micino solo, piccolo, come quello della vecchia pubblicità della Barilla, intirizzito.

Chissenefrega.

Quella pubblicità faceva commuovere mia madre, quando era ancora viva.

Miagolio straziante.

M'è venuto un occhio umido, io non sono uno dalla lacrima facile, a me le lacrime arrivano in comode rate semestrali.

Ho guardato fuori dalla finestra: no, non pioveva.

Pioveva in casa però: pioveva sentimentalismo, sciocco, pericoloso come veleno. Quel genere che poi ti fa impietosire, e va a finire che apri la porta e c'è un cucciolo di pochi mesi che nessuno vuole e ti resta nelle croste, e l'unica tipa che rimorchi da un pezzo, e che pensavi di indurre in tentazione portandola a casa e sfoggiando la creaturina, magari è pure allergica ai gatti.

E poi i gatti lasciano pelo dappertutto, magari pisciano anche per casa e sono un problema se devi farti un week-end al mare o in montagna con gli amici. Me ne sarei francamente infischiato di quel portapulci, proprio come Rhett Butler!

Straziantissimo miagolio, di un povero gattino che io, nel mio infinito egoismo, avrei fatto morire di fame e stenti.

Chissene... miagoliiiiiiiiio lunghissimo.

«Merda!»

Mi sono alzato e ho spalancato con impeto la porta, nella speranza che la creaturina si spaventasse e fuggisse a... zampe levate.

E invece c'era un gattone enorme, nero, con lo sguardo sornione che pareva dire: «Ci sei cascato, vero coglionazzo?» Era difficile credere che i precedenti miagolii, disperati e lancinanti, fossero stati emessi da quell'enorme gatto dall'aria vissuta.

Ho socchiuso gli occhi e l'ha fatto anche lui. Verde contro verde, in effetti il colore era simile. Ci siamo guardati, quasi soppesandoci a vicenda. Lui, un gatto, un animale spesso simbolo di indipendenza, e di menefreghismo e io un uomo simbolo delle stesse cose e anche delle sveltine e del fancazzismo. Forse anche queste due caratteristiche coincidevano. Non era un buon segno: non mi piacciono i tipi come me: non c'è da fidarsi!

«Vattene, stronzo!» ho detto cercando di allontanarlo con un piede, provando un subitaneo senso di fastidio.

Lui ha scartato con un'agilità impressionante, vista la mole, e poi è entrato a coda ritta, come fosse casa sua, l'impertinente!

«Ehi, va' via!» ho detto seguendolo, immaginando che avrebbe pisciato sul divano, o si sarebbe fatto le unghie sul tappeto persiano. Avrei voluto prenderlo e sbatterlo fuori, ma temevo che mi graffiasse o chissà che altro, non pareva molto amichevole. Magari ci saremmo azzuffati e mi avrebbe distrutto la lampada stile Tiffany. (Un prezioso cimelio di famiglia che però odiavo, ma non mi andava che quel coso peloso, entrato nella mia vita con un subdolo stratagemma, la spaccasse!)

Lui non s'è neppure voltato, è rimasto fermo davanti al divano, come se ne valutasse la morbidezza e sembrava pure contrariato. Un divano a due posti, coperto da un plaid a quadretti che alla sera, se faceva freddo, mi tiravo sulle gambe, nulla di che, ma come lo fissava. Lo ha anche annusato, l'insolente!

Poi ha emesso una specie di sospiro, ed è balzato sul plaid, ha girato su se stesso e infine s'è acciambellato. Si vede che lo aveva reputato sufficientemente comodo, diciamo passabile.

Mi sono avvicinato guardingo. «Torna da dove sei venuto, sciò!» Ho cercato di sospingerlo via e lui ha soffiato, ma non come un micetto, tipo tigre del Bengala, da cattivo. E io ho fatto un balzo indietro.

Ecco il problema con gli animali, arrivano ed è difficile sbarazzarsene. Mi ci mancava solo un gatto. Proprio io che odiavo le responsabilità.

Miagolio meno straziante e più pretenzioso, quasi minaccioso.

Sta a vedere che vuole da mangiare, il servizio completo.

A quel punto ho preso il cellulare per scattargli una foto. L'avrei usata per un post su Facebook e il proprietario o la proprietaria gnocca (ma magari!), sarebbe saltato/a fuori.

L'ho inquadrato per bene, e lui sembrava davvero imponente, una pantera in miniatura (più o meno, vista la stazza). Quando ho cliccato ha fatto un'espressione tutta stramba, come se fosse malatissimo.

Ci ho provato e riprovato, ogni volta che scattavo sembrava più brutto e malato. Ma non lo era, lo stronzo!

«Ti riconosceranno lo stesso, coso!» gli ho sibilato postando le foto e l'annuncio. Lui non mi ha degnato di uno sguardo e s'è messo a fissare la TV. Gli mancavano solo i popcorn e una birretta.

Ho inserito l'annuncio specificando che non avrei potuto assolutamente tenerlo.

Dopo qualche minuto sono piovuti commenti terribili. Addirittura una mia ex ragazza, Carolina, mi accusava di essere anaffettivo e sentimentalmente analfabeta. Alcuni sconosciuti mi tacciavano di crudeltà, leggendo nelle mie parole “non posso tenerlo” l'intenzione di buttarlo per strada (ma era da lì che veniva, probabilmente!) Altri pseudo amici mi rimproveravano perché avrei dovuto controllare se avesse il microchip, mettere locandine in giro, citofonare a tutti quelli del quartiere. Altri ancora mi incolpavano di tenerlo male, pareva che avesse il pelo troppo opaco... ma erano le undici di sera e lo avevo appena trovato. Anzi era stato lui a trovare me, invadendo la mia casa!

Ho lanciato uno sguardo di straforo al mio coinquilino abusivo, oh, sembrava avesse capito tutto e se la stesse spassando, l'infame!

La diatriba su FB è durata ore... e ho capito di non avere un solo misero amico che mi tenesse la ragione. Stavano tutti dalla parte di qualcun altro e si attaccavano fra loro, e, cosa ancora peggiore, nessuno reclamava il gatto. Elargivano consigli e sparavano tirate su come occuparsi di un animale. Eh, tanto di cappello, però non mi aiutavano.

Quello intanto si è alzato ed è andato dritto in cucina, come sapesse dove fosse e che lì c'era da mangiare. L'ho seguito, cellulare alla mano.

«Non ho niente per te!»

Sguardo accusatore.

«Vuoi del latte?»

Occhio socchiuso.

Messaggio whatsupp: Carolina (la mia ex, quella che mi aveva accusato pubblicamente di essere anaffettivo!) «Non dargli il latte, stronxo, la maggior parte dei gatti sono allergici e stanno male. È solo un luogo comune che lo bevano senza problemi. Se glielo vuoi dare cercane uno senza lattosio, e non osare buttarlo in strada oppure ti spezzo le rotule.»

Ma che cazzo, nemmeno mi vedesse!

Sì, forse mi ero comportato da stronzo con lei, ma non la z, non con la x, lo giuro! Io sono uno stronzo classico. E poi, cavolo, lei mi voleva spezzare le rotule e quello anaffettivo ero io, e meno male!

Comunque, fingendo indifferenza, ho rimesso in frigo il cartone del latte. (Sotto lo sguardo vigile del mio coinquilino molto interinale!)

Avevo della carne in scatola, ne ho messa una porzione intera in un piattino di plastica e poi l'ho piazzata sotto al naso dell'abominevole peloso.

Lui mi ha guardato, poi l'ha annusata e mi ha guardato di nuovo.

Cosa voleva, anche un sommelier, per caso?

«Ho solo questa, mangiala, se hai fame. E piantala di fare quella faccia... cosa... muso!»

Annusatina, miagolio straziante.

Oh, porca paletta!

Occhi da cucciolo tipo gatto di Shrek.

Ho sospirato e mi sono accovacciato.

Miagolio, sguardo strappalacrime.

Mi sono morsicato un labbro e poi, piano piano ho allungato una mano e ho provato ad accarezzare il bastardo.

Si è strusciato tutto. Okay, lo ammetto, mi aveva colpito, ma sapevo che sotto sotto era un falsone, proprio come me. Uno che sa come farsi amare, ma che in fondo non ama nessuno, non per davvero, coglie solo le occasioni.

«Dai, mangia, coso... per il momento ti chiamerò Jack, perché sei nero, Black Jack, ma guarda che è solo per una notte, poi te ne vai.»

Già il fatto che gli parlassi era una sconfitta morale, e me ne ero reso conto già da un pezzo. Sapevo che lui lo sapeva. L'infiltrato si è strusciato ancora una volta e poi, di colpo, s'è messo a sbafarsi tutta la scatoletta.

Sta a vedere che voleva le coccole prima di mangiare, ho pensato, no dai, è impossibile. O sì?

Gli ho messo dell'acqua in un altro piatto, lui non mi ha nemmeno cagato perché stava mangiando.

In qualche modo aveva suscitato la mia simpatia, tuttavia sapevo che presto qualcuno si sarebbe fatto vivo per riprenderselo e mi sono ripromesso di non affezionarmi (sport in cui ero bravissimo). Perché poi succede sempre così quando ti affezioni a qualcuno e lo perdi... be', sono cazzi amari, meglio non rischiare! Meglio restare a galla. Sapevo bene quanto potesse essere longevo il senso di vuoto che resta.

Sono passati tre giorni. Nessuno si era fatto vivo per riprenderselo, nonostante locandine e annunci vari; un “amico” veterinario, per la “modica” cifra di sessanta euro, era passato a casa mia e mi aveva assicurato che Jack non aveva alcun microchip. Su Facebook mi stavano demolendo, però. Ero quasi un criminale, ormai.

Jack aveva preso l'abitudine di acciambellarsi accanto ai miei piedi quando andavo a letto, ma al mattino me lo ritrovavo appollaiato addosso. E di notte russava come un umano, un umano davvero rumoroso e grosso, era come dormire accanto che ne so... a The Rock! Io avevo preso l'abitudine di comprargli del cibo da gatti veri, su consiglio del suddetto amico veterinario il quale mi aveva anche messo in guardia: «Se non è di qualcuno non lo prenderà nessuno: avrà almeno sei o sette anni, a giudicare dai denti. Nessuno vuole un gatto vecchio, cercano i cuccioli. Magari l'hanno abbandonato, viveva in casa perché è socievole e ben pasciuto.»

Il messaggio era chiaro: “Te lo tieni.”

Tuttavia la storia di considerarlo vecchio mi urtava. Anche io ultimamente rimorchiavo meno: le ragazze, le donne, sembravano più interessate ai fighetti implumi senza calzino, con l'addominale, la caviglia scoperta e i pantaloni alla scacazza.

Jack non era “vecchio” - avevo guardato su Google - era di mezz'eta. Come me... be', io non ero proprio di mezz'età ma mi ci stavo pericolosamente avvicinando, nonostante l'ottimismo di mia zia.

Poco a poco mi sono affezionato, a Jack dico, e sono passate le settimane. Anche io ero un po' randagio, e alla fine ero solo. Andavo bene solo per fare festa e per fare casino, per le battute, per le cene e le bevute con gli amici. Andavo bene anche alle donne, finché non capivano che non avevo alcuna intenzione seria. Ma quegli amici poco alla volta si stavano trovando delle ragazze con cui costruire qualcosa, alcuni erano in procinto si sposarsi... e io? Sarei rimasto a galleggiare da solo, come uno stronxo! E un po', in fondo, me lo meritavo. Un po', in fondo, odiavo il tipo d'uomo che ero diventato.

Però adesso avevo Jack, o meglio Jack aveva me. Be', era più o meno la stessa cosa, tranne che io ero il suo servo, apriscatole umano, foraggiatore di cibo e stuzzichini, addetto alla pulizia dei suoi escrementi nella vaschetta igienica, scaldotto serale e notturno, nonché raccoglipeli e distributore di coccole randomiche.

Quando ero al lavoro Jack probabilmente dormiva, al mio rientro non trovavo mai disastri o cose strane, ovvero ciò che temevo sempre. Ma trovavo lui, e il suo sguardo verde, un po' strafottente.

«Ciao, Jack, com'è andata la giornata?» gli chiedevo.

Lui non si alzava nemmeno, ma faceva un miagolio e socchiudeva gli occhi. Chissà che cosa voleva dire? Magari: “che cazzo te ne frega, dove sono le mie scatolette?”

Tuttavia sono cambiato, mi sono sensibilizzato. Vivere con un essere tanto indipendente quanto bisognoso di coccole e cure mi aveva fatto scattare qualcosa dentro. Mi occupavo di lui, mi sentivo migliore, forse bisogna amare un po' se stessi prima di poter amare qualcun altro, animale o persona che sia.

Forse mi sarebbe piaciuto stare con qualcuno a cui importasse di me. Magari iniziava a fregarmi di qualcosa. Non ne avevo “bisogno” ma sarebbe stato divertente, piacevole.

Proprio come con Jack. Ero certo che in strada sarebbe sopravvissuto benissimo, si vedeva che era uno che se la sarebbe cavata, però non gli andava di sbattersi troppo, preferiva coabitare con un umano e chissà, magari volergli un po' bene, a modo suo, perché così la vita era migliore. Era più bello mangiare dopo le coccole, insomma.

Sono passati due mesi, e io ho rinunciato a vari week-end in montagna e al mare, non mi andava di lasciare Jack da solo per andare a fare lo scemo con quegli stessi amici che nel momento del bisogno (ovvero quando avevo chiesto aiuto per trovare casa a Jack) mi avevano liquidato con battute sarcastiche per poi sbattersene le balle, tutti presi dalle loro vite con le loro fidanzate e mogli o future mogli. Nessuno che prima di chiedermi di andare da qualche parte mi domandasse come stava Jack o come avrei fatto con lui. Chissenefregava, no?

Ero stato un superficiale e come tale mi trattavano. Jack invece mi capiva, lo sentivo. Rispettava la mia indipendenza e io la sua. Non era mai noioso, però c'era. Sapevo che era lì anche quando era in un'altra stanza. E sapevo di dovermi ricordare delle scatolette, di fargli fare il vaccino, mi ritenevo importante per lui. Quando tornavo stanco dal lavoro non mi assillava per il cibo, aspettava che mi facessi la doccia, che mi bevessi la birra, solo dopo si avventurava in cucina e si sedeva accanto alle sue ciotole, in silenzio. Attendeva.

Jack non ne voleva sapere di uscire di casa e se lasciavo la porta aperta non se la filava nemmeno di striscio, io immaginavo significasse che si trovava bene.

Una sera ho fatto tardi, e sono rientrato alle tre di notte, brillo, dopo una cena con quei soliti “amici”. Quando ho messo piede in casa ho visto che Jack aveva praticamente fatto a brandelli il tappeto persiano, e aveva trascinato il “nostro” plaid nella cassettina igienica, urinandoci sopra.

Sul subito mi sono girate mostruosamente le balle. Nessuno sa farti girare le palle quanto un gatto. «Dove sei, teppista? Che t'è preso?» ho iniziato a sbraitare, incazzato, perlustrando la casa. L'ho trovato accanto alle ciotole, fermo, in attesa. Non ha nemmeno sollevato lo sguardo. Anche i croccantini erano finiti (era una buona forchetta, da lì la sua stazza!)

L'incazzatura è volata via. A qualcuno importava che facessi tardi. Qualcuno mi aspettava perché aveva bisogno di me, e forse non solo per mangiare. E anche a lui erano girate le palle nel ritrovarsi solo. Però adesso, per orgoglio, non si mostrava pentito, né miagolava disperato, faceva l'indifferente, proprio come facevo sempre io quando qualcuno mi feriva. Penso di non avere mai amato nessuno come ho amato Jack in quel momento.

Ero diventato sensibile, e forse leggevo significati dove non ce n'erano, magari quello era un po' l'amore.

«Vieni qui, Jack, non è niente, sono tornato.»

Sguardo sulla ciotola vuota atto a farmi sentire un verme.

«Non sono più arrabbiato.»

Sguardo fugace, miagolio. Un verme schifoso che l'aveva mollato lì da solo per tutto il giorno e la sera.

Ho allungato una mano.

Superstrusciamento e, per la prima volta da quando eravamo amici, le fusa! Sembrava un motorino vibrante!

Gli ho riempito la ciotola dei croccantini, poi quella della pappa. Lui mi ha fatto altre due coccole prima di mangiare. Le comode rate semestrali sono diventate un pagamento anticipato e mi sono sbrigato a tergermi le guance. Stavo diventando un uomo solo, di mezz'età e pure uno smidollato piagnone.

«Cazzo!» ho detto rialzandomi.

Miagolio di approvazione.

Sì, Jack sapeva come farsi amare, chissà se sapeva anche amare davvero? Io prima di lui non ne ero più capace.

Appena ha terminato di ingurgitare la sua cena è corso sul divano. Voleva che guardassimo insieme la TV, ci avrei giurato. Sì, sapeva amare e anche dimostrarlo, però a modo suo e solo se ne valeva la pena, come fanno i bastardi, come me.

Una sera di due giorni dopo, mentre Jack e io guardavamo la TV, hanno suonato alla porta.

«Che palle, sarà l'amministratore!»

Miagolio strano di quando non era d'accordo.

Quando sono andato ad aprire c'era una gnocca da paura in jeans e camicetta bianca, aveva una cascata di capelli biondi e un viso simpatico.

«Dica.» Ho fatto un sorriso smagliante, quello cattura-gnocche.

Jack si è materializzato dietro alle mie gambe.

La ragazza mi ha fissato, per un attimo le si sono illuminati gli occhi, poi ha abbassato lo sguardo e ha sorriso. «Mi chiamo Penelope, quello è il mio gatto. Ho visto solo ora l'annuncio su Facebook, perché l'ha fatto girare un'amica di un'amica.»

Il mio sorriso è scappato via. «Ah. Capisco.»

Non avrei mai pensato di potermi sentire tanto male.

Poi sono balzato sulla difensiva. «Scusi ma lo ha abbandonato? L'ha lasciato uscire incustodito, senza collarino o microcoso, microchip?» Tutte le ramanzine dei gattari mi erano entrate nel sangue ormai. Se lo aveva abbandonato non si meritava di riaverlo. Come io non meritavo di riavere le mie ex! Non le avevo amate e si erano defilate e ora stavano con uno migliore di me. Punto.

Lei ha sollevato un sopracciglio, sembrava disponibile, e vulnerabile. «No, è una lunga storia. Posso entrare?»

Avevo già fatto entrare Jack, una volta, e ora questa? Non mi pareva una buona idea, ma per educazione ho detto di sì. ( E un po' anche perché era davvero figa!)

Lei è entrata e subito si è abbassata verso Jack. Il bastardo, l'infido traditore, si strusciava contro di lei a più non posso, e faceva le fusa senza alcuna dignità! E che miagolii strazianti... come se io non avessi fatto che maltrattarlo o ignorarlo o affamarlo e lei finalmente fosse venuta a salvarlo.

Che nervoso!

«Allora, com'è la storia?» l'ho incalzata. «No, perché io l'ho tenuto bene, l'ho fatto vaccinare, l'ho nutrito...» Sembravano una sfilza di cazzate e io sembravo insopportabile. «Dormiva con me!» ho aggiunto sperando di fare presa. Solo dopo averlo detto mi sono sentito un pirla sentimentale.

Lei ha sollevato lo sguardo per un attimo e poi, continuando a grattare il mento dell'infedele, ha mormorato. «Sì, lo immagino, ti sarai affezionato, Scaramouche è speciale.»

Colpito e affondato. Il me stesso superficiale non si sarebbe mai abbassato ad ammettere una cosa simile, però ero cambiato, anche se non volevo, cazzo!

Ma diciamocelo, “Scaramouche”?

Mentre lei non se ne accorgeva, ho intercettato lo sguardo verde di Jack e ho mimato con le labbra: «Scaramouche?» Inarcando vistosamente un sopracciglio con aria di disapprovazione. Lui ha socchiuso gli occhi, come a dire: “Eh, che ci vuoi fare? Non vedi quant'è gnocca? Ti faresti chiamare Scaramouche anche tu, stupido umano!”

Ho fatto una smorfia.

«Be'... sì, mi sono.... sì, diciamo affezionato» ho mormorato un po' in imbarazzo.

Jack ha fatto una puzzetta, le faceva sempre quando era emozionato, ma secondo me in quel frangente voleva sottolineare la propria vittoria su di me. Mi aveva dato una bella lezione!

Penelope, si è alzata in piedi. Jack ci fissava entrambi, a turno. Io ancora stavo aspettando la sua spiegazione.

«Qualche tempo fa ho incontrato un tipo in un bar, uno con gli occhiali, un tipo affascinante.» Ha fatto un gesto con una mano, come fosse una cosa stupida. «Mi aveva detto di chiamarsi Adam, e sembravamo così in sintonia che...»

Io tamburellavo con un piede. Le braccia conserte e l'aria imbronciata. «Sì, vai avanti!» Mica ero lì per sentire la storia della sua vita, volevo arrivare al punto, quello in cui non le avrei consegnato il mio amico. Ehm, quello che era andato in brodo di giuggiole appena l'aveva vista, uffa!

«È imbarazzante ma... be' me lo sono portato a casa e ci sono finita a letto. Lo stronzo poi mi ha detto di chiamarsi Gabriele e non Adam. Il suo vero nome, non so perché, mi risuona ancora nelle orecchie. Comunque aveva cincischiato un po' sulla menzogna del nome con le scuse più fantasiose... sai gli uomini.»

Ho aggrottato le sopracciglia.

«Oh, scusami!» ha detto lei.

«Niente, prosegui.» Scazzatissimo.

«La mattina dopo, vai a sapere perché, non gliene fregava più niente di me. Sai quei tipi superficiali, egocentrici, no? Pensa che si tirava tutte le lenzuola dalla sua parte lasciandomi lì a congelare in babydoll!»

Certo, avevo presente il tipo... tipo me che mi defilavo il mattino dopo, magari dopo una rapida doccia! E la visione di lei fra lenzuola spiegazzate, magari di seta, nere, in babydoll, in effetti era allettante, ma non avrei ceduto. Jack era mio... no, io ero di Jack, maledizione! Lui mi aveva cercato!

«Sì, e allora?» ho ribattuto piccato.

«A Gabriele non piaceva Scaramouche: già dalla sera prima sembrava scocciato dalla sua presenza. E quella mattina è andato a farsi la doccia ed è sparito mentre io mi rivestivo... lasciando la porta aperta e Scaramouche è scomparso! Credo l'abbia fatto uscire apposta. L'ho cercato dappertutto, io vivo alla villetta in fondo alla via, dopo i campi, sai quella un po' isolata? Pensavo che il mio adorabile amico peloso fosse morto, che magari si fosse perso nella foresta che c'è a sud. Ho fatto circolare anche anche dei volantini» Ha fatto un gesto nell'aria con la mano, gli occhi le si stavano inumidendo. «Non li hai visti, vero? È che Scaramouche in foto viene malissimo e...»

Aveva proprio ragione!

Ho tentato di rispondere ma la tipa ha iniziato a piangere sul serio e a me, per la prima volta, dispiaceva davvero. Ed era bello e brutto al tempo stesso. Capivo come ci si potesse sentire all'idea di avere perso un amico come Jack.

Una botta allo stomaco. Chi ero io, per arrogarmi il diritto di decidere se la gnocca fosse responsabile della scomparsa di Jack? Era suo, gli aveva voluto bene per anni, di certo. Si vedeva lontano un miglio che ci teneva.

Avrei voluto consolarla, con cose tipo “dai, non è niente, era al sicuro, tutto è bene quel che finisce bene”, ma quelle frasi paracule sembravano non volermi uscire di bocca. Un tempo l'avrei fatto, l'avrei anche abbracciata e poi magari saremmo finiti a letto.

Poi ho immaginato la scena in cui lei se ne andava con il mio amico e io restavo solo, di nuovo, a galleggiare come uno stronxo con la x. Nessun altro gatto avrebbe mai potuto sostituire Jack, lui mi aveva scelto, eravamo simili.

Nel frattempo Penelope piagnucolava, accarezzava Jack e lui sembrava felice. Mi sono sentito geloso, poi arrabbiato e infine un po' sollevato perché nessuno aveva abbandonato Jack, lui era amato. Era stato solo un incidente, si era allontanato magari curiosando in giro - forse scacciato da quel tipo incontrato nel bar - e poi, chissà perché, era venuto da me. Non era stato come con la mia prima ragazza, Viola, quella con cui avevo vissuto tre anni che poi mi aveva buttato fuori perché s'era innamorata di uno più interessante e meno immaturo. No, qualcuno aveva sempre amato Jack e aveva pianto per lui... mentre il traditore peloso si ingozzava nella mia cucina.

«Be'... allora puoi...» Riprendertelo... riportartelo a casa. Non ce la facevo a dirlo. Volevo dannatamente bene a quel fottuto traditore. E gli occhi umidi no, sembravo un mollaccione, un tristissimo uomo di mezz'età senza i giornaletti porno! E poi nella scatola dei giornaletti a volte ci dormiva Jack. Sarebbe rimasta vuota, tutta vuota, avrei dovuto ricomprare i pornazzi ma adesso non mi andava più. Preferivo essere stronzo anche con la x!

Maledetto gatto!

Penelope mi ha guardato e ha sorriso in modo strano, piegando la bocca come se sorridesse solo a metà, anche il suo sguardo era vagamente felino. «Come ti chiami?»

Ho deglutito. «Tommaso, Tommy per... per gli amici, se così vogliamo chiamarli.» Oddio, patetico!

Jack mi ha guardato scettico. Cosa guardi cosa, che è tutta colpa tua, voltagabbana, teppista dei tappeti e perfido pisciatore di plaid! Fatti i cazzi tuoi, che te ne vai in giro a fare danni e a scroccare letti e pasti e poi russi e caghi come un leone!

Penelope si è mordicchiata un labbro. «Senti, Tommy, gli uomini sensibili e carini sono davvero rari e poi a Scaramouche di solito gli altri maschi non piacciono e tu sì. Vorrà pur dire qualcosa, no?»

Sì, che è uno stronxxo con due x!

Penelope mi piaceva, Penelope amava Jack (e il bastardo ricambiava), non l'avrei mai trattata come le mie solite conquiste passeggere, era come se avessimo già un legame, e quel legame era Jack. Sì, ero decisamente cambiato.

Ho annuito e mi sono messo a fissare la lampada Tiffany che Jack non aveva mai distrutto, anche se il filo penzolava. Era stato eroico da parte sua.

«Sei... single?» ha domandato Penelope. L'ho guardata solo per un istante, era arrossita. Avrei riso di lei, del suo evidente disagio, ma ormai ero sensibile e un po' mi faceva effetto.

«Sì.» Mi sono messo le mani in tasca e ho ripreso a fissare la maledetta lampada. “È solo un gatto, solo un dannatissimo gatto!” Ma il groppo in gola non voleva andarsene, mi si era affezionato pure lui.

Jack ha miagolato. Quel suo verso da gattino piccolo mi è arrivato dritto al cuore. Cazzo!

«Adoro le lampade Tiffany» ha mormorato lei.

Ho fatto due più due: voleva attaccare bottone, le piacevo, lei in effetti mi piaceva, soprattutto mi piaceva Jack, non volevo perderlo. «Sì, le ADORO anche io.» (La mia versione del miagolio straziante.)

«Dai, abbiamo già qualcosa in comune, che ne dici se usciamo insieme, magari ci conosciamo, e tu ogni tanto vieni da me a trovare Scaramouche...»

La sola idea che se lo portasse via, subito, mi faceva venire voglia di urlare. Forse non sarei nemmeno riuscito a dormire senza quel gattazzo che mi russava addosso con il suo alito che sapeva di pesce.

«Che ne dici, Penelope, se ora vengo da te, con Jack, e ordiniamo una pizza? Credo che dovrebbe riabituarsi a te... sai si è affezionato anche lui, a me!» Ho rilanciato, l'idea non mi dispiaceva affatto. (Non mi sono venuti bene gli occhi da gatto di Shrek, ma credo fosse un buon tentativo.)

«Chi è Jack?»

«Lui, che tu chiami Scaramouche.» L'ho indicato.

Jack mi si è strusciato sulle gambe, e a fatica (vista la panza) si è sollevato per acchiapparmi il dito con una zampa. Al che ho pensato: “Sta a vedere che ha capito tutto, l'infido!”

«Credo sia una buona idea... tu sei uno che si prende tutte le lenzuola?» ha ridacchiato lei arrossendo ancora di più.

Non più! E poi era proprio carina.

«Ma figurati, e tu sei una che russa come Jack?»

«Naaaa!»

«Credo che potremo parlarne. Almeno eviterai avventure occasionali con uomini che a Jack non piacciono, credo che abbia naso per gli stronzi!»

Lei è scoppiata a ridere.

A quel punto ho guardato in basso, verso il mio amico dal pelo nero, forse è stato un caso, ma per un momento mi è parso che mi strizzasse un occhio verdissimo. M'è sfuggito un sorriso: fra vecchi bastardi ci si intende. E lui s'era trovato un bastardo con cui andare d'accordo, al posto di altri occasionali che lo chiudevano fuori. A modo nostro ci volevamo bene e ce la intendevamo a meraviglia.

Jack era una genio o era tutto nella mia testa? Forse le cose giuste arrivano al momento giusto? Sai cosa? Chissenefrega! Ero pronto a rischiare di innamorarmi di una donna, perché mi ero già innamorato: di Jack!

Il mostro della laguna oscura



Rami contorti, simili a mani adunche, parevano minacciare la laguna appena rischiarata dalla luce della luna che, verdastra, filtrava fra le spettrali sagome penzolanti di tillandsia. Era un luogo oscuro, fatto di umidità e suoni sinistri. Ammantato di nebbia lattiginosa, colmo di ancestrali odori di morte e putrefazione,

Il silenzio, a tratti, era squarciato da richiami animaleschi e spaventosi.

Di notte era peggio, ma di giorno non era certo un luogo rassicurante.

Le acque placide della laguna si mossero come se una mano invisibile ne accarezzasse la superficie. Poi la lama di luce lunare, quasi fosse un riflettore, illuminò la cima di una testa squamosa. Sarebbe anche potuta essere il dorso di un pesce, ma poco a poco affiorò. Era una creatura che non pareva appartenere al mondo degli uomini, bensì, forse, a qualche strana mitologia. Verdognola, ricoperta di scaglie e squame. La bocca era enorme, simile a quella di un pesce e, appena le labbra carnose si socchiusero, rivelarono denti appuntiti. Gli occhi rilucevano di arancione e verde con qualche baluginio rosso; la pupilla somigliava a quella di un drago, o di un essere le cui tracce si erano perse nella notte dei tempi.

Si avvicinò alla sponda dapprima nuotando, nel silenzio più assoluto, solerte e deciso, poi prese a camminare, mentre l'intera sagoma del corpo emergeva. Era umanoide, con braccia e gambe, ma ben più imponente di qualsiasi umano. L'intero corpo era rivestito di scaglie, la pinna dorsale, morbida, ondeggiava a ogni passo. Le braccia erano unite al corpo da una membrana sottile. Le branchie fremevano adattandosi a respirare l'aria, gli occhi erano vigili, attenti.

I versi degli animali cessarono, mentre la creatura appoggiava un piede, somigliante a quello di un coccodrillo, sulla sponda della laguna. Era come se il predatore dei predatori avesse appena palesato la propria presenza a ogni animale.

Dall'alto, fra le cime dei cipressi di palude, si udì il richiamo di un uccello celato dai rami piangenti dei salici.

Il mostro sollevò di scatto la testa, socchiuse gli occhi per individuare il volatile capace di tanta immotivata audacia.

Il misterioso e spericolato pennuto tacque dopo un ultimo cinguettio sommesso.

Il mostro, grondate acqua, con qualche alga palustre appesa al corpo, si guardò attorno alla ricerca di una preda e trovò solo desolazione e silenzio.

A quel punto, grugnì scrollandosi l'acqua di dosso, sbuffò e, infine sbadigliò.

«Allora?» disse, con voce gutturale.

- Allora cosa?

«Allora dov'è la vittima? Dov'è la solita biondina stupida che mi toccherà inseguire camminando lentamente, mentre lei corre come una pazza, ma io la prendo lo stesso perché inciampa in un tronco/si impantana nel pantano o si ferma a urlare dove nessuno la sentirà?» Il mostro si mise le zampe anteriori, palmate, sui fianchi.

«No, non le metto!»

- Invece sì: l'ho già scritto che le metti lì.

«Non lo trovo corretto!»

- Visto che te le sei messe sui fianchi, invece?

«Sto perdendo la pazienza! Dov'è la mia vittima?»

- Eh, stasera non è venuto nessuno. Sai com'è, non è che questo posto abbia una buona reputazione, non hai visto come l'ho descritto? E poi tu non fai altro che sbranare gente, dilaniare, inseguire, terrorizzare! Molti tendono a non lasciare una buona recensione del posto.

«Giusto. Però mio cugino, il Mostro della Laguna Nera, non aveva questi problemi.»

- Erano altri tempi e soprattutto era un'altra storia.

Il mostro si grattò la cima del capo. «Sì, ma ora che faccio? Voglio una preda!»

- Mi pare non ci sia anima viva in giro, non so che farci.

«Ma l'altra sera una ragazza mi ha fatto una foto, magari sono su Facebook, o su Instagram così arriveranno i campeggiatori e...»

Dietro di lui la nebbia si muoveva sinuosa, quasi lo amasse.

- Sai qual è il problema?

«No.»

- Che le ragazze, anche se ti scattano le foto, sono poco social dopo che le hai uccise ed eviscerate.

L'essere venuto dalle profondità palustri annuì in modo grave. «Sì, posso capirlo.» A quel punto sospirò. Dopodiché, in un moto di rabbia quasi infantile affibbiò un pugno a un salice (che già era piangente!) Il crepitio della corteccia che si spezzava squarciò il silenzio. «Ma se mi facessi arrivare giusto qualcuno, così, che ne so... per esigenze di copione? Che ti costa, scusa?»

- Sarebbe un po' scontato.

Lui si strinse nelle spalle e disegnò dei cerchi nella sabbia della spiaggetta. Quando si accorse che stavo descrivendo le sue mosse, si rabbuiò e smise con un grugnito di frustrazione per nulla sommesso.

- Giusto per cambiare, vuoi magari... una compagna?

Lui si guardò tra le gambe e mi fece un gestaccio. «A che vuoi che mi serva, non c'è niente qua! Solo scaglie.» Mi lanciò uno sguardo sinistro, dove c'era scritto “ed è tutta colpa tua!”

- Eh, certo, sei più simile a un pesce, e sai come si riproducono, no?

«Lei fa le uova, lui le feconda.»

- Bravo.

«E tu mi vorresti appioppare una compagna insopportabile solo per farmi fecondare delle stupide uova? Senza nemmeno divertirmi un po'?»

- Sarebbe splendido avere dei piccoli mostriciattoli che si stagliano nella luce lunare, fra la nebbia. Immagina un lungo viale al tramonto, con la palude come sfondo e voi che vi allontanate insieme, tenendovi tutti per mano. Darebbe un taglio tutto diverso alla storia.

«Rabbrividisco alla sola idea. Non sono quel tipo di mostro, io!»

- Allora per stasera niente vittime, stai lì da solo e rifletti su quanto sia tetra e solitaria e lugubre la tua esistenza di mostro.

Lui lanciò un sasso nella laguna. «È che mi annoio.»

- Dai, raccontami di come sei nato, qualcosa di te!

«Sei pazza?»

- A volte mi pongo lo stesso quesito.

«Ma non me lo ricordo! Mi sono ritrovato qua, istinto sanguinario compreso, e niente, il resto è storia.»

- Ah, ecco.

«Non puoi sembrare delusa: mi hai creato tu.»

- Più o meno.

Il mostro inspirò, le scaglie si sollevarono nell'enfasi del gesto. Era il mostro più triste che si fosse mai visto.

All'improvviso, dal folto della vegetazione, si udirono delle risatine... Dai suoni si capiva che si trattava di un uomo e di una ragazza, giovane. Quel tipo di gioventù che non immagina quali pericoli possano celarsi nel buio di una palude tanto cupa.

«Veramente?» bisbigliò il mostro. Aveva un luccichio eccitato negli occhi da rettile.

- Sì, mi facevi pena.

L'orribile creatura si nascose dietro a un tronco, si acquattò per colpire nel momento più opportuno. Il corpo teso era magnifico, luccicante d'acqua, i muscoli pronti a scattare. Perfetto nella sua mostruosa bellezza oscura.

«Grazie» farfugliò il mostro sottovoce.

- Niente, figurati, ora concentrati!

La ragazza (bionda) iniziò a spogliarsi e a correre verso la laguna, urlando: «'TANTO NON MI PRENDI!» rivolta al compagno, che pareva avere qualche annetto più di lei. In effetti non sembrava molto interessato all'idea di inseguirla in quel groviglio di radici e fango.

Il mostro scosse il capo e sospirò, chiaro segno che sapeva come sarebbe finita.

L'audace pennuto, dalle cime dei cipressi di palude, emise un canto simile a una risata sguaiata.

La ragazza, ormai seminuda, si fermò, quasi avesse percepito il pericolo.

La nebbia che accarezzava la laguna parve assaggiarle la pelle. «Dove sei?» domandò voltandosi indietro, verso l'uomo che era sparito dalla sua vista. «Non fare scherzi stupidi.» Rabbrividì, stringendosi le braccia al petto...

Fu a quel punto che il mostro della laguna oscura balzò fuori, la bocca spalancata, le labbra grondanti viscida bava, le orrende zampe protese, pronto a ghermirla e a saziare il proprio inesauribile appetito.

Quando le fu addosso, però. esitò.

La strinse forte, godendo del contatto con la pelle calda e fremente, ruggì. In quel momento, fece capolino l'accompagnatore della ragazza, che inquadrò la scena con uno smartphone, mormorando: «Ferma così!» Lei obbedì e tentò perfino di fare le labbra a sedere di gallina. L'uomo scattò la foto, ed esultò: «Perfetta, prenderò un sacco di like!» Si voltò per tornare all'auto, sogghignando sotto i baffi.

La ragazza, di nuovo terrorizzata, prese a dibattersi, strillando: «Noooo, Adam, nooo! Non lasciarmi qui!»

Il mostro sospirò come a dire: “Non ce la faccio. È talmente stupida che mi attaccherebbe la stupidità, se la mangiassi!”

L'uomo giunse all'auto e, una volta essersi chiuso dentro, postò la foto su sui social: # Mostrodellalagunascura # incredibile e # subitaneoscatto. Non sapeva come gli fosse venuto in mente l'ultimo hashtag... Poi sorrise e mormorò fra sé: «Non mi chiamo, Adam, stupida.»

Dalla laguna si udì l'urlo lancinante della ragazza: «ADAAAAAAAAAAAAAM!»

L'uomo sbuffò e mise in moto l'auto. Era sempre stato uno stron... insomma un po' antipatico. La soluzione di portarla alla palude per levarsela dai piedi gli era parsa la più intrigante: da anni correva voce che in quel luogo tetro vivesse qualche mostro e lui ora ne aveva le prove e in più si era liberato dell'ultima noiosa conquista estemporanea. Si sentì benissimo! Avrebbe detto che aveva tentato di aiutarla, ma purtroppo...

Nel frattempo, il mostro decise che, per quanto la ragazza sembrasse insulsa, la fame era troppa. Spalancò la bocca per morderle il collo, poi si fermò e le sorrise. Lei strillò ancora più forte. Il mostro temporeggiò e finì per mordicchiarle solo una ciocca di capelli... sapeva di balsamo al cocco.

L'essere della palude era felice, era emozionato all'idea di comparire sui social, anche se nessuno gli aveva chiesto il permesso di fotografarlo: finalmente il mondo si sarebbe accorto di lui.

Ancora non sapeva che non sarebbe stata una buona cosa.

«Eh? Che cosa intendi dire?»

- Non si parla con la bocca piena!

Il mostro sputacchiò: «Era solo una ciocca di capelli, che vuoi che sia? Allora, cosa volevi dire? Quella frase che hai scritto era minacciosa!»

- Che il mondo, a volte, può essere più affamato di un mostro.

La ragazza guardò la creatura, esterrefatta. Poi riprese a urlare e il mostro ridacchiò, mentre il volatile impertinente lanciava nuovamente il solito, lugubre, richiamo.

© Mirta Drake 2017

 


Amante, amica, amore

 

La grande sala era illuminata dal bagliore dorato delle fiaccole. Piccole anime di luce che traballavano trasmettendo lo stesso movimento alle ombre. Zelia entrò, sospirò, si lisciò addosso l'abito di broccato che non era avvezza a portare e si avvicinò lentamente all'amica che se ne stava appoggiata al muro dall'altra parte del salone. Quando le fu dinanzi, strinse le labbra per un istante e poi attinse al coraggio. «È difficile sai, dirti ciò che provo» mormorò. Il corpetto la stringeva troppo, le mancava il fiato.

L'altra la fissava, immobile, le fiaccole creavano strani giochi di ombre e facevano sì che paresse ammiccare.

Il profumo di rose che giungeva dal giardino sottostante sembrava insopportabile, invadeva la stanza con quelle note dolciastre... fiori stupendi che un giorno sarebbero morti, prima reclinando lentamente il capo, per poi avvizzire e finire nella terra. Era il loro destino, e se qualcuno le avesse colte in boccio, sarebbero morte ancor prima.

Zelia si accarezzò la complessa acconciatura, composta da un diadema e ciocche inanellate in arzigogolate forme, che la faceva sentire come se avesse chissà quale strana creatura in cima al capo. «Ti sembro strana, vero?»

Nessuna risposta, Zelia strinse le labbra per un istante. «Mi sento strana anche io. Tutto questo non fa per me, è talmente distante dal mio modo di essere che, a volte, mi sembra di vivere la vita della donna che non sono mai stata e che mai sarò.»

Una folata di vento, proveniente da una finestra socchiusa, accarezzò le fiammelle che danzarono riflettendosi sul viso dell'amica come un sorriso. Ma non lo era.

Zelia le voltò le spalle, come se nascondere alla compagna d'armi quell'accenno di lacrime che le baluginava negli occhi fosse indispensabile a mantenere il controllo. Poi proseguì. «Non dipende da me, amica mia. Mio padre ha deciso che io mi sposi, per il bene del regno.» Guardò in alto per ricacciare indietro le lacrime. «E tu sai bene quanto io detesti l'idea di appartenere a un uomo.»

Si voltò stringendo i pugni, mentre la rabbia le si distendeva sul viso. «O a qualcuno, soprattutto qualcuno che non conosco nemmeno.»

L'altra era imperturbabile, come se ascoltare gli sfoghi dell'amica fosse un'abitudine talmente radicata in lei, da sapere perfettamente che interromperla sarebbe stato inutile.

Zelia si umettò le labbra rosee. «Ho fatto ciò che volevo per anni, noi due siamo state insieme per anni, abbiamo condiviso battaglie, ferite, dolori. Ci siamo amate. Abbiamo vissuto un'intera vita in poco tempo, un tipo di vita che le mie sorelle non conosceranno mai. Abbiamo viaggiato, combattuto, dormito all'addiaccio, talvolta in città sconosciute e anche in stamberghe che farebbero rabbrividire persino i servitori.» Sorrise amaramente. «Ci siamo amate così da tanto da pensare di essere inseparabili...» Si sfiorò il collo con una mano. «Ma entrambe sapevamo che era solo un sogno. Abbiamo vissuto una fantasia che temevamo finisse ogni giorno, magari con la morte. E invece finirà con la nostra separazione.»

La stolida compostezza dell'amica non diede alcun segno di cedimento. Quella lingua tagliente che tante volte aveva parlato per Zelia, tirandola fuori dai guai, adesso pareva priva di vita. Forse aveva accettato la situazione meglio di lei.

Zelia la accarezzò delicatamente, il palmo contro quella pelle che aveva amato al punto da non desiderarne altra. «Ora però devo rispettare il volere di mio padre, non ho scelta, capisci? Conosci bene l'importanza delle alleanze e il sangue che sgorga in mancanza delle stesse. Tu mi hai sempre capita. Puoi capire anche questo?»

Nessuna risposta se non il silenzio sottolineato dal sibilo del vento, nella notte che abbracciava le mura del castello. Avevano comunicato innumerevoli volte senza bisogno di parlare, ma ora era diverso, adesso faceva male, perché quel silenzio non significava profonda comprensione bensì impronunciabile dolore.

Fuori la luna stava cercando il proprio posto nel cielo, soffusa di un bagliore giallo simile a quello delle rose nel giardino.

Zelia si passò una mano sul viso. «Non è proprio un addio, amore mio. Potremmo vederci ancora. Verrò a trovarti, magari qualche volta andremo in giardino insieme, al riparo da sguardi indiscreti. Non sarà più come prima però, adesso la nostra relazione sarebbe disdicevole agli occhi del mio futuro marito. Non ci sarà più concesso di fare l'amore a modo nostro: muovendoci sinuose e rapide, i tuoi affondi e la mia mano a stringerti fino a farti sibilare. Appassionate, spietate, innamorate della vita e della soddisfazione...» La voce le tremò.

Zelia chiuse le palpebre, l'ombra di un ghigno si distese sulle vestigia della sua vecchia espressione da guerriera. Audacia, forza, decisione... poi si trasformò in un sorriso triste. «Mi rimangono i ricordi, resteranno con me per sempre, anche quando sarò la donna che non avrei mai voluto essere. Tu riuscirai a non dimenticarli?»

Un lupo, o forse un cane, ululò nella notte. Era quella la risposta dell'amica, dell'amante, dell'amore di Zelia? Il suo atteggiamento era imperscrutabile.

Zelia sentì un tuffo al cuore nel vederla lì, inerme, ad accettare passivamente quelle parole terribili. Ma la capì. Non poteva fare altro. Nessuno poteva fare niente. Avrebbe perso la compagna. Poco a poco, i ricordi si sarebbero sbiaditi fino a diventare polvere fra la polvere, così come la gioventù che le stava scivolando fra le dita. Sarebbe diventata una dama, una gentildonna, la signora del castello... una moglie come tante. Una che avrebbe dovuto fingere di amare il marito, be', almeno un po'. Come facevano le altre, quelle che aveva sempre segretamente disprezzato. Quasi come quelle rose troppo profumate. Incatenata dalle stesse radici che le avevano donato la vita e permesso di sognare di poter essere diversa.

«So cosa stai pensando» mormorò Zelia sgranando gli occhi di scatto, sulla scia di quei terribili pensieri. «Un giorno, prima o poi, troverai qualcuno disposto ad amarti. Qualcuno che imparerai ad amare quanto hai amato me, a proteggere come hai sempre protetto me. Una persona con cui avere una nuova vita, che resterà con te fino alla morte, forse stringendoti forte... che non ti abbandonerà come sto per fare io. Probabilmente un uomo. Buffo, no?»

Le lacrime le solcarono le guance. «E credo sia giusto così. Questo è ciò che tutti si aspettano da noi. Però, amore mio, ciò che abbiamo condiviso rimarrà unico.»

Zelia si asciugò il viso in un moto di stizza, guardò l'amica e le fece un cenno con il capo; il loro addio era inevitabile quanto il proprio destino. «Grazie per tutti i giorni che abbiamo passato insieme...» Non riuscì a pronunciare la parola “addio”, ovvero il commiato che aveva pensato le sarebbe uscito dalle labbra come un fiotto di sangue. Lo ingoiò, era troppo amaro. Inutile.

Si voltò e si avviò mestamente alla porta, l'abito le frusciava attorno e sembrava trascinarla verso la nuova vita che l'attendeva, in balìa di una corrente inarrestabile, nel frastuono doloroso del cuore. Chinò il capo.

Sulla soglia si girò ancora una volta a guardare l'amica che se ne stava là, appesa al muro: la sua spada. L'elsa foderata di cuoio e pelle macchiati dal sudore dei palmi di Zelia, la lama lucente che scintillava di fuoco riflesso, brulicante di vita proprio sul filo con cui donava la morte.

Impassibile, immobile, stupenda, perfetta, pericolosa, fedele, affascinate e tentatrice come nessun uomo sarebbe mai potuto essere.

Zelia chiuse la porta e andò coraggiosamente incontro al proprio destino, eppure quel fuoco le bruciava ancora dentro e lei sapeva che non sarebbe stato facile placarlo.

© Mirta Drake 2017

 

Lo sguardo del corvo


Era mattino presto quando due energumeni in divisa da secondino bussarono alla porta dell'ufficio di Melissa Lewis. La donna, dai lunghi capelli rossi legati in una severa coda di cavallo, si versò ancora una tazza di caffè, soffiò sul liquido bollente e poi mormorò stancamente: «Avanti!»

Melissa era il direttore della struttura per malattie mentali “Hammerford” da poco meno di un anno e già odiava quel lavoro, tuttavia le servivano i soldi se voleva riuscire a scappare con David, il suo amante.

Mentre la porta si apriva lei stava ancora rimuginando sui soldi necessari a trasferirsi in Belize, dove la moglie ricca e vendicativa non li avrebbe trovati. O almeno così speravano. David non poteva toccare le finanze della consorte e Melissa aveva calcolato di dover lavorare ancora un anno, all'incirca, poi con la buonuscita avrebbero avuto i soldi che necessari.

La donna sollevò lo sguardo e incontrò quello di una ragazzina sui ventidue, forse ventitré anni. Magrissima, capelli biondi, arruffati, il viso sporco di qualcosa che pareva terra, o fuliggine. Muoveva il collo a scatto, come un uccellino preso in trappola. Le due guardie la tenevano per le braccia e lei trascinava i piedi stretti - così come le mani - da pesanti manette. La divisa arancione sembrava penderle addosso, tanto le andava grande.

Melissa detestava doversi occupare di quel genere di casi. Spesso erano ragazze che vivevano per strada, non erano davvero mentalmente malate o instabili o pericolose... era solo che prima poi davano fuori di matto, venivano arrestate, e magari sotto l'effetto di qualche sostanza stupefacente fallivano il test per la sanità mentale.

Era a quel punto che arrivavano all'Istituto Hammerford. E purtroppo Melissa sapeva che non ne sarebbero uscite altrettanto sane di mente. Eppure non poteva fare granché per aiutarle. “O forse non ci riesco perché penso solo a me stessa...” pensò con una punta di disagio.

Quel posto cambiava le persone, un altro motivo per cui andarsene in fretta, la donna temeva che, alla lunga, avrebbe finito con il cambiare anche lei. Era più una sensazione che una certezza, ma era un pessima sensazione e le si aggrappava addosso ogni mattina quando metteva piede là dentro, facendole stringere lo stomaco. Quelle pareti bianche, l'odore di disinfettante al limone, le urla... lo nascondeva bene ma la atterrivano.

La donna si recò alla scrivania, i tacchi che risuonavano sul pavimento. Alle sue spalle c'era una decorazione in ferro che riproduceva un simbolo identico a quello cancello di Hammerford: ali dispiegate come quelle di un angelo, con un blasone nel mezzo. Per un istante immaginò di apparire come un angelo alato agli occhi della prigioniera. Poi scacciò il pensiero, si sedette, appoggiò il caffè su un sottobicchiere e, con un sospiro, guardò bene la ragazza.

I due energumeni l'avevano fatta accomodare sulla sedia davanti alla scrivania.

«In macchina non stava ferma un istante!» disse Marlon, quello più vecchio.

L'altro, Micah, sembrava a disagio, deglutì e prese a guardare fuori dalla finestra, verso il parcheggio spazzato dal primo vento autunnale. «Sì... è un po' strana. Se ne sta zitta e poi di colpo scatta, sembra abbia il diavolo negli occhi.»

Melissa sorrise per tranquillizzarlo. Spesso i più giovani erano facilmente impressionabili. «Come ti chiami?» domandò alla ragazza. Lei socchiuse gli occhi nocciola e fece un cenno di diniego con il capo.

«Non parla» intervenne Marlon. «O meglio, ha “detto” di essere muta.» Sottolineò l'irrazionalità della cosa picchiettandosi su una tempia.

Melissa prese un fascicolo e scorse qualche riga. Il rapporto redatto dalla polizia, sulla ragazza che le avevano appena portato, diceva che si chiamava Roux Gualtieri: a quanto pareva aveva rapinato una banca, tutta da sola. Il rapporto spiegava che gli agenti intervenuti sul posto si erano inspiegabilmente sparati uno con l'altro. Melissa si accigliò, era strano, tuttavia imputò la cosa a un rapporto redatto frettolosamente. Il bottino era sparito oltretutto, perché quando l'avevano acciuffata l'aveva già nascosto e si era rifiutata di dire dove. Melissa pensò che in realtà, probabilmente, aveva un complice.

Tuttavia, Roux non sembrava pericolosa, piuttosto pareva spaesata e spaventata.

«Lasciateci sole» disse Melissa. I due uomini si scambiarono uno sguardo perplesso. Poi Marlon disse: «È sicura, signora Lewis?»

«Può essere pericolosa» aggiunse Micah.

«Se mi sentirò in pericolo vi chiamerò» rispose lei. Sapeva che la prima cosa da fare era instaurare un buon rapporto con le pazienti.

Tuttavia, appena i due uscirono, Roux si spostò in avanti fissando Melissa dritto negli occhi.

La donna abbassò lo sguardo quasi senza accorgersene, e sentì un brivido inspiegabile risalirle lungo la schiena. L'odore di disinfettante le entrò nelle narici, era fastidioso come una carezza indesiderata. Come se quel posto volesse... inghiottirla.

Ingurgitò il caffè quasi ormai freddo e si costrinse a guardare la prigioniera. «Non vuoi parlare?» domandò. «Perché dici di essere muta?»

Roux sorrise per la prima volta da quando era entrata, i piccoli denti erano bianchissimi. Aveva un viso affilato, quasi animalesco, e diede a Melissa una strana sensazione: come se all'improvviso qualcosa di selvaggio fosse entrato nel suo mondo fatto di pragmatismo e progetti. Poi la ragazza scosse il capo.

Melissa era a un bivio: avrebbe potuto farla semplicemente portare via, oppure cercare di saperne di più sulla rapina. Prevalse la curiosità, mentre in fondo al cuore si faceva strada un pensiero orribile quanto tentatore: “E se riuscissi a farmi dire dove ha nascosto il soldi?” Subito si sentì una pessima persona, ma l'idea di poter fuggire in Belize con David, magari quella sera stessa era impossibile da scacciare. “Forse è la mia occasione, la mia unica occasione.”

Deglutì e fissò Roux negli occhi. «Puoi dirmi almeno dove hai nascosto i soldi? Forse potrei fare in modo che tu... be'... ottenga un trattamento migliore» disse. Ogni parola sembrava risuonare così ipocrita da darle un capogiro. Melissa si disse che stava solo provando, non era di certo un reato. «Magari li hai dati a qualcuno che se li godrà mentre tu resterai a lungo qui dentro... a... invecchiare.» Aveva calcato un po' la mano, si sentì ancora peggio. “Sì, questo posto cambia le persone...” pensò.

La ragazza socchiuse gli occhi e annuì.

«Forse il tuo ragazzo?» azzardò Melissa. Le parve di cogliere un lampo nello sguardo di Roux, come se gli occhi le si fossero scuriti di colpo e allora osò aggiungere: «Va sempre a finire che lui ti viene a trovare per un po' e poi sparisce... con un'altra. In questo caso anche con i tuoi soldi.»

Lo sguardo di Roux si fece sempre più attento, scrutava attentamente i lineamenti di Melissa, quasi le frugasse sotto la pelle.

La donna si ritrasse ma non riuscì a sottrarsi all'occhiata di Roux. Era come se l'avesse incatenata, trafitta con quegli occhi così strani... che stavano cambiando forma e colore diventando sempre più simili a quelli di un corvo!

Melissa aprì la bocca, incredula e spaventata non solo da ciò che che vedeva ma anche dal sinistro presagio di essere sull'orlo della pazzia. “Questo posto... ti cambia...” pensò di nuovo per un attimo.

Poi percepì il mondo vorticarle attorno, le mancò il fiato, e si sentì trascinare via, le parve di essere un piccolo animaletto sotto l'attacco di un gigantesco corvo dallo sguardo spietato, un predatore che non aveva scelto di esserlo: lo era per natura.

Quando riuscì finalmente a chiudere e gli occhi e a riaprirli la prima cosa che vide fu la decorazione a forma di ali d'angelo. Brillava, inondata dai primi raggi di sole, proprio dietro a una donna dai capelli rossi che le somigliava davvero molto... però aveva lo sguardo di un corvo e anche le ali alle sue spalle, ora che le guardava bene, parevano ricordare lo stesso animale selvatico.

Ci mise qualche istante a raccapezzarsi. A capire che la donna che stava fissando era lei stessa. Di scatto abbassò sgomenta lo sguardo sulle proprie mani bloccate dalle manette, sulla divisa arancione. Poi urlò o tentò di farlo. Ma dalla bocca non uscì alcun suono.

Non udì neppure la porta aprirsi ma si sentì trascinare da Micah e Marlon. Avrebbe voluto urlare “No! Lasciatemi! Non sono lei, sono io, sono Melissa Lewis!” ma era muta. Muta come aveva detto di essere la ragazza corvo che ora era nel suo vero corpo. Una lacrima le rotolò sulla divisa.

Il direttore di Hammerford le sorrise. Un sorriso ferale, spietato. Forse come era stata lei stessa quando aveva pensato di impadronirsi del bottino: una predatrice per natura, non per scelta.

Il cuore le batteva all'impazzata. “Non è possibile, non è possibile! Non è la realtà!”

«Portatela via... mettetela in isolamento. È del tutto fuori di melo... ehm, di testa! Io ora uscirò un momento, sarò di ritorno per il pranzo» disse Roux, nel corpo di Melissa.

Si avvicinò di scatto alla detenuta che non faceva che dimenarsi e piangere e le sussurrò piano: «Tranquilla, tesoro. David mi aspetta, andremo in Belize.»

La ragazza emise un lungo urlo muto. Sì, quel posto l'aveva cambiata... come aveva sempre temuto.

© Mirta Drake 2017


Seta rossa


Viviana stava ritirando le magliette del marito. Erano sposati da sette anni e, ultimamente, le cose non andavano troppo bene fra loro: la passione di un tempo era scemata, sgretolandosi poco a poco nella noia della quotidianità.

La donna si stiracchiò come un gatto, poi si ravviò i lunghi capelli biondi e si guardò nello specchio della camera da letto. Era ancora una bella donna, un seno florido e un sedere sodo che però tendeva a non mettere in mostra, non le erano mai piaciuti gli abiti aderenti o vistosi. Eppure in quel momento si chiese se non dovesse pensare di vestire in modo diverso per riaccendere la passione del marito.

Sbuffò, poi, in un moto di stizza, fece per chiudere il cassetto ma non ci riuscì. C'era qualcosa che lo bloccava. Il cassetto era inceppato.

Viviana iniziò a svuotarlo, scocciata, ma a un tratto le sue dita sfiorarono qualcosa di cartaceo. Lo tirò fuori: era un racconto del marito. Sulla prima pagina campeggiava il titolo: “Seta rossa”.

Sì, lui scriveva, ma le aveva sempre fatto leggere ogni cosa. Perché non quella? Da cos'altro la stava tagliando fuori? Tutti i dubbi sulla loro relazione sembravano guardarla, nascosti fra le magliette con i loro occhietti malvagi, colmi di gelosia e di recriminazione.

Viviana accarezzò il titolo con i polpastrelli la scritta, chiudendo gli occhi. Faceva male sapere che lui le aveva nascosto qualcosa, così come faceva male pensare di violare la sua intimità di autore: sarebbe stato quasi come profanare un tempio.

Pensò di metterlo via ma non ci riuscì: il titolo, la carta a contatto con la sua pelle, sembravano inebriarla, travolgerla e sopraffarla. Era come se il racconto volesse essere letto, quasi avesse vita propria.

Decise di leggerlo, non riuscì a farne a meno,

Fin dalle prime righe fu chiaro che si trattava di un racconto erotico piuttosto spinto.

Era scritto in prima persona, parlava di rapporti sessuali impetuosi, spesso a sfondo sadomaso con una donna dai capelli biondi e lunghi, alta e prosperosa. Sarebbe potuta essere lei... ma del resto quello era il tipo di donna che lo aveva sempre intrigato. Non c'era da stupirsi che l'avesse descritta così. Eppure... lei era ancora così agli occhi del marito? Ultimamente le pareva d'essere invisibile. Invece in quel racconto lui descriveva scorci sensuali di pelle nuda, capelli lisci come la seta, uno sguardo ammaliante. Il suo lo era ancora, per lui?

Proseguì la lettura sempre più sconcertata. C'era una scena molto particolareggiata in cui la donna veniva legata a un albero, lasciata lì per almeno un'ora prima che lui tornasse e facesse l'amore con lei. Una sottile ma demoniaca forma di controllo, atta a d aumentare la sensazione di pericolo e l'eccitazione pensò Viviana. A lui piacevano manette, corde, giochi di quel genere? La fantasia di dominare una donna? Lei a non ne aveva mai avuto sentore.

Forse il marito aveva lasciato lì quel racconto perché lei lo trovasse? Magari aveva messo nero su bianco le sue fantasie perché non aveva il coraggio di confessargliele? Oppure erano attività a cui si dedicava con un'altra? Il che avrebbe spiegato la loro crisi coniugale, quella di cui non parlavano mai, come se dirlo a voce alta avesse potuto renderla più reale.

Viviana era spaventata e al contempo morbosamente attratta da quello strano racconto.

“Il suo corpo nudo e candido era in netto contrasto con le lenzuola blu notte. Le legai le mani, le baciai la schiena vellutata. Il nostro era un gioco dove io fingevo di dominarla, ma, come sempre, era lei ad avere il controllo. Quella notte volevo dimostrarle di poterla sorprendere, forse spaventare. Volevo portare il gioco a un nuovo livello. Presi il nastro di seta rossa e la bendai. Lei emise un sospiro roco; la baciai, la toccai, sentivo il suo desiderio pulsare a ritmo con il mio. Poi la lasciai lì, legata e bendata sul letto e andai ad aprire la porta. Ale sorrise ed entrò senza dire nulla. Eravamo già d'accordo.”

Viviana sobbalzò nel leggere quel nome. Ale. Poteva essere il diminutivo di Alejandro. Lo aveva conosciuto due anni prima, quando aveva deciso di frequentare un corso di ballo latinoamericano, nella periferia nord della città. L'idea iniziale era di andarci con il marito ma lui non aveva voluto sapere, e quasi le aveva riso in faccia. Così ci era andata con Dany, una collega, e lì aveva conosciuto Alejandro, l'insegnante. Era davvero affascinante e si muoveva come se si nutrisse di musica, come fosse nato per danzare. Occasionalmente flirtavano, Alejandro era irresistibile con quel suo fascino un po' esotico sottolineato dall'accento argentino. Qualche volta aveva fantasticato su come sarebbe stato andare a letto con lui, ma erano solo fantasie e tali erano rimaste. Erano diventati amici, in qualche modo, e spesso lei si fermava a parlare con lui dopo le lezioni, nel vicolo accanto alla sala da ballo. A volte ridevano come matti, altre si confidavano. Era anche capitato che fossero lì lì per baciarsi, però non era mai successo e Viviana aveva messo a tacere l'attrazione che sentiva per quell'uomo.

Il loro presunto flirt era iniziato e finito in un arco di tempo mirabilmente breve; tuttavia Viviana ripensò a lui con una punta di nostalgia e sentì un nodo alla gola. Le mancavano le loro chiacchierate del martedì, il suono della sua voce, il suo modo di darle proprio il consiglio che le serviva, nell'esatto momento in cui ne aveva bisogno.

Viviana strinse i denti. È una coincidenza, nient'altro, si disse proseguendo la lettura, sempre più turbata.

“Ale quasi avvampò vedendo la mia donna legata, nuda, e bendata. Ci guardammo scambiandoci un'occhiata d'intesa. Lui iniziò a spogliarsi subito, era tonico, abbronzato e provai una certa invidia. Quando Ale la baciò lei capì che qualcosa non andava, si ritrasse e disse qualcosa, lui le sussurrò: «Lo so, tesoro. Non sono tuo marito. Stanotte lui ha deciso di sorprenderti e di realizzare ciò che per noi fino a oggi è sempre stato proibito».

Credevo che lei si sarebbe indignata, che avrebbe urlato, ma non fu così e io mi sentii audace e al contempo sciocco, tuttavia volevo che il gioco continuasse. Lo aveva riconosciuto, del resto quell'accento era inconfondibile.”

Viviana trattenne il fiato, il cuore in gola. Era lui! Parlava davvero di lei! Chissà... forse l'aveva seguita? Magari l'aveva vista parlare con Alejandro nel vicolo? Cosa aveva immaginato che ci fosse fra loro? Viviana si sentì in colpa, forse era stata lei stessa la causa della loro crisi, e all'improvviso quell'innocente flirt assunse una valenza diversa. Frammenti di ricordi le tornarono alla mente come schegge acuminate: si immaginò nei panni del marito. Lei sarebbe impazzita di gelosia a vederlo in tali atteggiamenti con un'altra, forse avrebbe dato di matto. Oppure no? O magari se ne sarebbe stata zitta, ad attendere che la burrasca passasse, proprio come stava facendo con questa crisi?

Girò un'altra pagina.

“Ale e Viviana fecero sesso. Era un tipo di sesso animalesco, privo di inibizioni, ed ero stato io ad abbattere le barriere del pudore della mia donna. Corpi sudati e gemiti di lussuria. Fu bellissimo e spaventoso. Mi unii a loro, sembrava facile ma fu imbarazzante, ero stato solo un tramite e mi sentivo di troppo. Però a lei piaceva e mi convinsi che alla fine non era male, era un'esperienza che ci univa. Un altro uomo ci univa, invece di separarci come avevo temuto.”

Viviana si sentì eccitata dall'idea della situazione, il ventre in subbuglio. Fuori, il rumore del vento sembrava sussurrare segreti insinuandosi fra gli alberi, accarezzando la casa in cui Viviana e il marito erano stati felici. Bisbigliando cose indicibili fra le foglie.

Il racconto proseguiva con la descrizione di altri incontri e di torridi amplessi, i giochi erotici includevano sempre anche Ale.

Arrivò alle ultime pagine.

“Mi resi conto che ormai odiavo Ale perché forse lei lo amava; quella sensazione mi uccideva, ed ero stato io a dare il via a tutto. Temevo di perderla. Così un giorno lo invitai da noi, ma mia moglie non c'era. Lo condussi in garage con una scusa e poi, proprio come avevo programmato, afferrai il crik e lo colpii mentre era di spalle. Cadde a terra senza un lamento. Già: i gemiti erano per quando scopava la mia donna. Lo colpii ancora e ancora, mentre la mia rabbia sembrava riempire tutta la stanza per poi ripercuotersi sul corpo ormai esanime. Fu difficile ripulire tutto il sangue. Un po' meno gettare il corpo in un torrente. Ale talvolta tirava di coca e, come speravo, imputarono la sua morte a un brutto giro di sostanze stupefacenti. Quando mia moglie seppe che Ale era morto si disperò per giorni. Non disse mai che lo amava, però. Io invece la amavo al punto di uccidere, per lei.”

Il plico cadde dalle mani di Viviana. Alejandro era morto davvero qualche tempo prima, invischiato in un brutto giro di droga. E lei aveva pianto, eccome.

Suo marito aveva davvero ucciso Alejandro perché era geloso, o era tutto quanto frutto della sua fervida fantasia di scrittore? Suo marito era ancora follemente innamorato di lei, tanto da sfogare le sue fantasie in un racconto o da uccidere qualcuno?

Forse entrambe le cose.

Le mancò il fiato, era combattuta, spaventata. Un brivido le si insinuò fra le scapole: dormiva accanto a un un assassino? Un uomo che aveva ucciso... per lei?

Ripose il racconto dove lo aveva trovato, ma le sensazioni provate durante la lettura le erano entrate sottopelle. Le si erano stampate in mente come le scene più audaci di un film hard in cui lei era la protagonista assoluta, una donna per cui un uomo avrebbe anche potuto uccidere. Si sentì bella, si sentì in colpa, audace, atterrita, provocante, inorridita... ma più di tutto perversamente eccitata.

Al lavoro, mentre cucinava, mentre beveva un bicchiere di vino... non riusciva a smettere di pensare a quelle sensuali descrizioni, a quei giochi “proibiti”, alla seta rossa. Morbida, peccaminosa, pericolosa come il bacio di un assassino.

Una settimana dopo si fece trovare a letto, gli occhi bendati da un drappo di seta rossa e nient'altro che un sorriso sulle labbra. La paura e il dubbio le incendiavano i sensi, tanto quanto la paura.

Quel drappo le impediva la vista, le faceva credere che suo marito avrebbe ucciso per lei. Probabilmente non aveva assassinato nessuno. Non poteva essere vero, ma adesso andare a letto con lui era peccaminoso, rosso come il sangue, come quel drappo, come la più scellerata delle passioni. Pericoloso come la più vergognosa delle fantasie... quando alla fine si realizza.

© Mirta Drake 2017

La ricetta dei ricordi

 

200 gr. di farina 00

100 gr. di zucchero di canna

100 gr. di burro

30 gr. di zucchero semolato

5 gr. di cannella in polvere

1 cucchiaino di sale

1 cucchiaio di latte

2 uova intere

20 gr. di cioccolato in polvere

3 gr. di lievito vanigliato

100 gr. d'amore

200 gr. di pazienza

Fantasia q.b.


Dispongo tutto davanti a me, sul tavolo della mia cucina ultramoderna, le mani che tremano, i ricordi che fanno altrettanto. Non voglio sbagliare nulla. Fuori piove. Ho sempre amato la pioggia, il suono che fa, le sensazioni che risveglia, l'odore che si sprigiona dal terreno.

So che devo ammorbidire il burro in una ciotola e poi unire entrambi gli zuccheri, aggiungere la cannella e il cioccolato, mescolare e infine incorporare il sale, il latte e le uova. Mi accingo a farlo.

«Sbatti tutto più forte che puoi» dice mia nonna che mi sta osservando attentamente: ha quello sguardo che potrebbe sembrare severo a un estraneo, ma io so che non lo è davvero.

Mi blocco e poi annuisco. «Lo sto facendo, nonna. » Le sorrido, mi dice sempre le stesse cose. Sembra un po' fuori posto nella mia cucina tutta cromata, lei, che ha in casa più centrini che centesimi.

«Deve diventare tutta una specie di spuma, non hai abbastanza forza. Dammi, faccio io.»

Sbuffo. «No, nonna. Non hai più nemmeno la forza di aprire le bottiglie dell'acqua. Ricordi?»

Lei solleva le sopracciglia e mi lancia uno sguardo furtivo, come non volesse ammettere di avere novant'anni e io lascio perdere e torno a sbattere il composto. Più forte, per non deluderla.

A un tratto lei si sporge sul tavolo. «Così va bene, dai. Adesso metti la farina e il lievito vanigliato.»

Come sempre i suoi non sono suggerimenti ma ordini perentori. Sorrido e obbedisco, dicendole: «Agli ordini!»

Lei non ride e fa una smorfia di disappunto. «E non prendermi in giro.»

«Signornò, Signore!» ribatto. Nessuna reazione, il senso dell'umorismo non è mai stato il suo forte. Ogni anno, il giorno del suo compleanno, facciamo i biscotti alla cannella insieme, come quando ero bambina. Solo che ora lei mi guarda e basta, diciamo che supervisiona. E impartisce ordini a tutto spiano. È troppo anziana e instabile sulle gambe, oltre che provata dalla malattia, per cimentarsi in cucina. Il grigio, nei suoi capelli, ha ormai quasi vinto del tutto sul nero corvino della gioventù.

«Nonna, allora... che ne pensi di Alex, quello con cui esco da qualche settimana. Ti piace?»

Sollevo incerta lo sguardo su di lei. Si acciglia, poi sospira, sento il fruscio del suo grembiule intonso. «Sembra Sandokan!» sentenzia tutta scocciata. Non ha mai avuto il dono della diplomazia.

«Ma nonna, guarda che adesso il pizzetto va di moda!»

Lei fa una smorfia che mi sembra più un rimprovero muto. «Ha la faccia di un poco di buono che ti farà stare male.»

«Dici così di tutti...»

«Difatti non mi sono mai sbagliata. Poi passi le giornate a piangere quando ti mettono le corna. Piangere sempre alla fine ti farà ammalare.»

Sbuffo. Okay, può essere che abbia un po' ragione, ma lei crede ancora di vivere nel 1950 o giù di lì. E non approva che io cambi spesso ragazzo. Tuttavia per me è importante il suo giudizio, sono sicura che prima o poi ne troverò uno che le andrà a genio. E sarà quello perfetto. Vorrei tanto che fosse Alex però, non vedo l'ora di rivederlo. Anche se in effetti mi rendo conto di avere la cotta un po' troppo facile.

«Quindi non ti piace?» domando un po' delusa.

«Ma no. È un bel ragazzo, in fondo. Ci sei andata insieme?» Ha un tono di disapprovazione. Lei non direbbe mai ci sei andata a letto. “Insieme” è il massimo che riesce a dire, però intende quello. Nonostante mi senta modernissima avvampo perché so che per lei equivale a essere poco seria o, tanto per fare il paio con Alex, una “poco di buono”. Divento di colpo l'essere pudico che tento sempre di scacciare dalla mia testa quando sono con gli amici, o con i ragazzi.

«No...» mento. Poi, il suo sguardo un tempo azzurrissimo, ora velato dalla vecchiaia, mi scruta al punto che alla fine spiattello la verità. «Sì, ci sono andata. Ma non al primo appuntamento, era almeno il quarto... il quarto va bene, no?»

«No. Ma intanto tu fai sempre come ti pare.» Scuote il capo. L'ho delusa. Mi dispiace però almeno non le ho mentito, non tanto, in fondo. «Quando arriverà quello giusto vedrai che aspetterai un po' di più e lui aspetterà volentieri» aggiunge come se fosse la depositaria della saggezza femminile.

Anche l'umiltà non è mai stata il suo forte.

Sospiro. Non ne sono per niente convinta. Lei non capisce il mondo di oggi.

«Vorrei tanto che lo conoscessi bene: ti piacerebbe, nonna. Sai che va a pescare? Un po' come il nonno.»

«Tuo nonno andava a pescare ma più che altro andava a giocare a carte» mormora burbera. Poi si stringe nelle spalle, guarda in alto per ricacciare indietro una lacrima abusiva. «Però era un brav'uomo. Questo Ales ti sembra un brav'uomo? Ti tratta bene?» Non riesce a pronunciare la x di Alex e a me sfugge una risatina.

«Sì, mi tratta bene. Stai tranquilla.»

Intanto divido il composto formando diversi cilindretti e poi lo metto in frigo, deve riposare per un'ora, circa.

«Vorrei solo che fossi felice, che avessi una famiglia. La famiglia è importante.»

«Lo so, nonna. È che per avere una famiglia prima devo trovare quello giusto, giusto sul serio. Adesso è tutto più difficile, rispetto a quando eri giovane tu, lo sai. Forse c'è più concorrenza. Là fuori è pieno di ragazze spregiudicate e di ragazzi che... uhm... lasciamo perdere.»

«Sì, lo so. È che tu sei sempre stata una dai gusti difficili e dalla cotta facile. Vai sempre a prenderti quelli sbagliati. A me piaceva quell'Andrea, era proprio simpatico e che faccia da bravo ragazzo aveva...» dice con sospiro.

«Nonna, Andrea era il mio fidanzatino alle medie!»

«E allora? Era così educato!»

«Niente, lascia stare.» Vado ad abbracciarla, la tengo stretta. Vorrei non lasciarla andare.

«Mi spezzi le ossa! Sai che ho novant'anni?»

«Sì, lo vedi allora che sono forte?» Ridacchio mollando la presa.

«Dovrai esserlo tanto, perché la vita è difficile e piena di quei Sandokan lì che vogliono solo venire insieme a te e poi ti piantano.»

Forse ha ragione, ho incontrato troppi Sandokan. Mi mordo un labbro. Alex sarà un altro “Sandokan” interinale oppure l'amore della mia vita? Non è che non ci ho capito un cazzo della vita e ha ragione lei?

Uffa, ha sempre avuto la capacità di mettermi in crisi. Ripenso ad Alex, al nostro bacio sotto la pioggia. Stasera lo vedrò, forse potrei proporgli di venire a vivere con me, giusto per provare. Per vedere di nascosto l'effetto che fa prendersi delle responsabilità. Potrei osservare come reagirà.

Dopo un'oretta prendo i cilindri di pasta e li taglio a rondelle, poi li deposito sulla placca da forno, sopra alla carta oleata.

La cottura fa sprigionare un profumo di cannella che mi trascina ancora una volta lontano, fra i ricordi, quelli senza Sandokan di passaggio, quelli di bambina. Guardo la pioggia, assaporo la sensazione d'attesa, la stessa di quando ero piccola e mi veniva l'acquolina in bocca. Forse ha ragione lei, forse l'attesa rende tutto migliore. Magari dovrei aspettare che sia lui a chiedermi di impegnarmi. Oh... chi lo sa?

Quando i biscotti sono pronti ne assaggio uno, è ancora caldo. Non ha lo stesso sapore di quando ero bambina, è più amarognolo e ha un retrogusto di nostalgia e un po' anche il gusto salato delle lacrime...

«Oggi porterò i fiori sulla tua tomba, al cimitero, nonna. No, non le camelie che ti fanno schifo, porterò le rose, quelle del giardino che una volta abbiamo usato per fare la marmellata. Già, questa è un'altra ricetta, magari la faremo l'anno prossimo. Ah ci penserò bene... su Alex, dico.»

© Mirta Drake 2017

Prima che la Storia diventasse una storia

 

L'alba si stava trasformando lentamente in mattino, quando Gnull si stiracchiò sul suo giaciglio di pelli, nella penombra della caverna. Per quanto fosse presto, aveva già l'ascella pezzata e un odore acre, consuetudine che si sarebbe tramandata fino al giorno d'oggi, ma Gnull, che viveva nel paleolitico, se ne sbatteva allegramente gli attributi.

I tempi in cui anche gli uomini si sarebbero depilati, facendosi pure le sopracciglia ad ala di gabbiano, erano ancora molto, molto lontani, e a Gnull non sarebbe mai venuto in mente di prendere un utensile qualsiasi per deturparsi il viso barbutissimo. Proprio non gliene poteva fregare di meno di rasarsi la barba o di tagliarsi i capelli a zoccolo di uro. (L'uro, per chi non lo sapesse - per chi non è “urologo”, insomma - era praticamente l'antenato del bestiame moderno.)

L'afrore proveniente dai movimenti “svegliosi” dell'uomo, indusse la sua compagna, Lea, a destarsi, nel timore di avere dimenticato la carcassa marcescente di qualche bisonte nella caverna.

La donna, il cui umore era spesso altalenante, si ricordò che il suo uomo amava conservare sul proprio corpo l'odore ferale delle avventure di quando andava a caccia. Tuttavia le girarono immensamente le ovaie: possibile che non potesse darsi una ripulita nel fiume? Sì, forse faceva un po' freddino, ma chi bello vuole apparire, un poco deve soffrire... infatti le narici della donna stavano soffrendo, e parecchio. Tappandosi il naso con due dita, si alzò, prese un pettine d'osso e si diede una sistemata sommaria. I capelli le scendevano sulle spalle come una cascata... no, ma chi voglio prendere in giro? I capelli le ricadevano sulle spalle come un cespuglio crespo, confondendosi con le sopracciglia simili a due bruchi pelosi. Fortunatamente, Lea si specchiava solo nelle pozzanghere o nelle acque del fiume, e si piaceva. Be' più meno, se non fosse stato per quella uro da monta di Pea. Gli uomini la guardavano come se la mangiassero con gli occhi, e, in alcuni periodi di magra, Lea aveva sperato che il loro appetito sessuale si tramutasse in istinto cannibale. Ma non era mai successo.

Fece un sospiro e si recò al fiume per lavarsi e, appena mise un piede nell'acqua lanciò un urlo simile al richiamo d'amore di un mammut. Era davvero gelida, per un solo istante, comprese a fondo le remore del compagno nel lavarsi. I momenti in cui una donna capiva il compagno erano già rari nel paleolitico, usanza che sarebbe stata tramandata per milioni di anni. Lea trattenne il fiato e poi si lavò come meglio poteva.

Nel frattempo, alla caverna, Gnull si stava preparando per la caccia, grugniva per ogni arma che riusciva a infilarsi nella cintura in pelle di animale sconosciuto che portava, per caricarsi. Ben presto fu armato fino a denti malmessi. «Io sono Gnull! Il più grande cacciatore di tutti!» ringhiò ergendosi più che poteva, le mani sui fianchi in posa da supereroe.

Quando uscì dalla caverna, si ritrovò davanti tutti gli altri cacciatori- che lo avevano udito - e si grattò la testa imbarazzato; i compagni si tapparono il naso dinanzi all'afrore delle sue ascelle.

«Stai sottovento» gli consigliò Kull.

«Ah, e tu saresti il più grande cacciatore di tutti?» gli domandò Dull inarcando un sopracciglio grosso quanto tre bruchi pelosi.

Gnull strisciò i piedi a terra, abbassando lo sguardo. «Era così per dire...»

Lea stava tornando dal fiume e, vedendo il suo uomo che faceva il cazzone con gli amici, urlò: «Gnuuuuuuuuuuuuuullll!» (Che in antico cavernicolese significava Gabriele). Lui impallidì. Quando Lea arrivò accanto al gruppetto si mise le mani sui fianchi. «Vedi di portare a casa qualcosa di decente per cena, Gnull!» tuonò fulminandoli tutti con un'occhiataccia.

I cacciatori strisciarono i piedi a terra, abbassando lo sguardo, il volto scarlatto.

Alcune delle altre mogli gridarono irripetibili improperi dalle rispettive caverne. Solo Pea, l'unica priva di marito/compagno o cavernicolo che dir si voglia, sorrise loro, poi lanciò a tutti un bacio volante. E gli uomini si lasciarono andare a complimenti (quasi) immeritati nei confronti della sensuale Pea.

Dalle caverne uscirono insulti spaventosi, tanto che i cacciatori si allontanarono in gran fretta: per quando potesse essere pericoloso affrontare un mammut o una tigre dai denti ad arma che non conoscevano - tipo la sciabola – le loro mogli adirate erano molto più spaventose.

I cacciatori si addentrarono nella foresta, superarono una collina erbosa e si ritrovarono in un prato costeggiato da un corso d'acqua. Non c'era ombra di cacciagione.

Gnull deglutì e si asciugò il sudore dalla fronte.

Dull lo guardò di traverso e disse: «Puzzi, e gli animali sentono il tuo odore schifoso, ecco perché si allontanano!»

Kull sbuffò. «In effetti li capisco.»

A quel punto Gnull si arrabbiò, l'omo aveva da puzzà, ne era certo, anche se non capiva perché, ma sospettava che avesse a che fare con le fredde acque del fiume e a un po' di atavico e sano fancazzismo. Così diede uno spintone a Dull. Kull intervenne per separarli e, di lì a poco, tutti i cacciatori iniziarono a darsi cazzotti, spintoni e calci. Dopo una mezz'oretta finirono a fare a botte nel corso d'acqua lì accanto, zuppi d'acqua gelida.

Poco distante, un maestoso mammut li sbirciava domandandosi perché gli umani fossero tanto stupidi da picchiarsi fra loro, senza alcuna femmina da conquistare nei paraggi. Pensò che si sarebbero estinti molto presto.


In quel momento, al villaggio, le donne stavano cucendo abiti di dubbio gusto accanto al fuoco. «Questa stagione va molto il monospalla, lungo, per riparare dal freddo» affermò Lea, scoccando un'occhiataccia a Pea, la single, che indossava un bikini in pelle di muflone.

Gea annuì e aggiunse: «Sì, il due pezzi è fuori moda da almeno tre lune».

Pea allungò le gambe affusolate, ricoperte da ispidi peli biondi quanto i suoi capelli. «Io credo che si debba mettere in mostra ciò che si ha perché...»

Le altre donne le lanciarono addosso della frutta marcia e Pea si allontanò ancheggiando e ripulendosi dal succo marcescente, infuriata.

Poco dopo, Mea, la donna di Kull, mostrò alle altre l'abito orribile che aveva cucito per il compagno. «Che ne dite?»

«Fa abbastanza schifo da spaventare anche quell'infoiata di Pea!» esclamò Lea.

Tutte scoppiarono a ridere.

Gea, la compagna di Dull, sbuffò nel sentire i marmocchi che piagnucolavano dalla caverna dove viveva. «Non ce la faccio più, noi ce ne stiamo sempre qui a cucire, a pulire, a badare ai bambini e a raccogliere erbe e gli uomini vanno a caccia e poi chissà dove!»

«Già!» le diede man forte Lea. «E poi non fanno altro che gironzolare attorno a Pea... Credo che l'istinto della caccia sia un po' troppo potente in loro.»

Le altre ridacchiarono. «Dovremmo andare noi a caccia, e lasciare loro qui a badare ai marmocchi, e a cucire e a fare tutto il resto» disse Mea, decisa come un uro che vuole accoppiarsi.

Lea si guardò attorno e scorse Pea, la scostumata, che si stava pettinando. «Scommetto che se noi andassimo a caccia lei resterebbe qui e i nostri uomini non farebbero altro che ronzarle attorno.»

Tutte le altre annuirono e Lea aggiunse: «E poi non credo che gli uomini sarebbero in grado di fare tutte le cose che facciamo noi. Loro cacciano e basta, riescono a fare solo una cosa alla volta e neppure bene... e sapete anche a cosa mi riferisco!»

Coro di risate sguaiate.


Nel frattempo, gli uomini erano balzati fuori dal ruscello, intirizziti e quasi puliti. Kull diede un ultimo spintone a Gnull. «Lea si commuoverà a vederti tanto pulito!»

Gnull ridacchiò ma poi si fermò di scatto, vedendo un mammut che li fissava. «Ecco! Ecco la nostra cena e l'ho trovata io» disse indicando l'animale, poi si appiattì al suolo per mimetizzarsi, e presto fu lordo di fango. Gli altri lo imitarono.

Peccato che il mammut li tenesse d'occhio da un pezzo, e non fosse affatto mansueto; quando li vide buttarsi a terra, capì che gli sarebbe bastato poco per caricarli e calpestarli come meritavano per avergli rotto gli attributi pelosi per più di un'ora con i loro insulsi schiamazzi.

E così fece, prese la rincorsa, correndo come un pazzo verso di loro. La polvere si sollevava sotto al suo passo pesante e selvaggio. Travolse cespugli e piante, facendo tremare perfino il terreno.

Gnull fu il primo ad alzarsi, brandendo coraggiosamente la lancia verso l'animale. Gli altri balzarono in piedi subito dopo di lui, arretrando sgomenti.

La lancia di Gnull si spezzò non appena sfiorò la spessa pelliccia del colosso. L'uomo si buttò a terra e chiuse gli occhi, sfuggendo miracolosamente alle possenti zampe dell'animale. Gli altri invece correvano da tutte le parti urlando come pazzi. Qualcuno chiedeva aiuto invocando la moglie.

Gnull prese fiato e fece un gesto apotropaico: quello di sfiorare le proprie parti intime con convinzione: si mormorava scacciasse la sfortuna e anche un po' le suocere. A quel punto, l'uomo tirò fuori una specie di clava uncinata e si lanciò all'inseguimento della bestia. Vedendolo, gli altri si vergognarono e tentarono di fingere di accerchiare l'animale.

Non si capiva più molto bene chi fosse il cacciatore e chi la preda, ma se c'era una cosa che Gnull voleva, era poter regalare a Lea la pelle di quel mammut. Sarebbe stata splendida con quella addosso: la pelliccia si sarebbe intonata alla perfezione con quel groviglio di capelli che aveva in testa.

La cosa durò ore. Alla fine, il mammut si scocciò di rincorrere gli umani e si dileguò, sempre travolgendo le solite piante, cespugli e quant'altro.

«S'è cagato sotto, il bestione!» esordì Kull, pallido come non mai.

In quella Dull esclamò: «Porco uro! Puoi dirlo forte!» E sollevò un piede ricoperto di merda di mammut. Ci era finito proprio dentro.

«Porta fortuna!» commentò Gnull fra una risata e l'altra.

La verità era che non avevano ancora trovato la cena e si guardarono uno con l'altro, sconsolatissimi.

Arrabattandosi come una mandria di dodo, e tramite ridicoli stratagemmi, riuscirono fortunatamente a scovare e a prendere cinque lepri magre come steli d'erba, prima di tornare al villaggio con le clave nel sacco.

Tornarono al villaggio pieni di graffi e puzzolenti come carogne, canticchiando tutti allegri qualcosa dalle note goliardiche, una sorta di canzoncina oscena. Ma si ammutolirono presto: quando le donne videro il misero bottino si infuriarono, solo Pea sembrava felice e disse: «Per tutte le clave! Basterà la pelle di una sola lepre per cucirmi un abito nuovo!»

Gli uomini ridacchiarono arrossendo (ma le barbe rigogliose lo nascondevano!)

Comunque la cosa fece imbufalire ancora di più le altre donne: ognuna rientrò nella propria caverna a passo di bisonte, e ogni relativo cavernicolo seguì la donna che aveva scelto come compagna. (Maledicendosi per averlo fatto tanto presto!)

Lea guardò Gnull con gli occhi fiammeggianti: «Gnuuuuuulll! Sei un buono a nulla, cosa mangeranno i nostri figli?»

La sopracitata prole, ovvero cinque marmocchi dall'aria corrucciata, scoppiò a piangere.

Gnull abbassò lo sguardo, umiliato, si sarebbe messo le mani in tasca, ma non erano ancora state inventate, così le tenne lungo i fianchi.

«E poi sei lurido di fango, e puzzi come un mammut!»

L'uomo, a quel punto, alzò il viso e disse ridacchiando: «Dovresti sentire quanto puzza Dull, ha messo il piede in un mucchio di mer...» Ma Lea lo fulminò nel bel mezzo della frase. (Anche allora una moglie era in grado di zittire il marito con una sola e semplice occhiata.) Poi si girò e si mise a fissare il centrino di canapa intessuta che campeggiava sul tavolo in pietra, regalo della madre, Viga. «Mi hai delusa, come sempre» mormorò.

Gnull si sentì malissimo, le si avvicinò e la prese per una spalla. Lei si voltò.

«Ho affrontato un mammut, per te, donna!»

Lei sollevò un sopracciglio, scettica. L'uomo a quel punto si mise a raccontare l'intera vicenda dello scontro con la bestia, con tanto di assurde mimiche, facendo sghignazzare i marmocchi e, alla fine, anche Lea.

La donna sapeva che l'avrebbe perdonato, come avrebbero fatto, purtroppo, molte donne a venire. «Per stasera mangeremo quella misera lepre e ci arrangeremo con le erbe e i frutti che ho raccolto, ho evitato le mele, perché circolano strane voci su quei peccaminosi frutti.»

Gnull annuì serio e Lea aggiunse: «E guai a te se darai a Pea la pelle dell'animale. Piuttosto ci faccio uno straccio per la polvere!»

Gnullino Jr. il loro primogenito, si alzò di scatto e corse verso una parete della grotta, iniziando a dipingere la scena di caccia appena narrata dal padre.

Lea gli urlò subito: «Gnuuuuullino! Piantala di imbrattare le pareti con quegli orribili disegni rupestri! E se arrivasse qualcuno e vedesse come hai rovinato la nostra caverna?»

Gnullino sbuffò, ma sapeva che avrebbe continuato l'opera in qualche grotta nascosta, dove lui e gli altri ragazzini facevano i murales. In fondo a una piccola caverna al limitare di un dirupo c'era una parete piena zeppa di disegni peccaminosi in cui Pea non solo era nuda, ma si accoppiava con i vari uomini del villaggio.

Se Lea e le altre l'avessero saputo... forse l'uomo si sarebbe estinto davvero.

In un prato lontano, invece, un mammut stava raccontando alla compagna di quanto fosse stato valoroso nell'affrontare gli umani, con tanto di mimica (esagerata) e lei lo elogiava barrendo di gioia.

Ecco, forse per non estinguersi occorre essere costantemente spronati... chi lo può dire?

© Mirta Drake 2017

Christmas Untold

 

Laggiù, in un remoto e misterioso angolo dell'innevata Lapponia, Babbo Natale stava sistemando le ultime cose per la notte più lunga dell'anno.

Ancora una lustrata alla slitta, una controllatina alla lista delle consegne e le solite raccomandazioni a quelle cornutazze delle renne.

«Dasher e Dancer» iniziò con un sospiro, «mi raccomando: non scagazzate sui comignoli e sui tetti, come fate spesso.»

Quelle fecero finta di nulla ma arrossirono considerevolmente.

Babbo Natale sospirò. «Vixen e Prancer» proseguì, «voi smettetela di importunare ogni volatile notturno che incontriamo e, soprattutto, di inseguire i pipistrelli, perché poi i reclami arrivano alla sezione Sorveglianza e ci metto tutto l'anno a smaltirli e a inviare lettere di scuse alle Creature Notturne.»

Le due renne in questione alzarono gli occhi al cielo e poi andarono a infilare il muso in un mucchietto di paglia, giusto per darsi un tono.

L'omone panciuto si sistemò i pantaloni. «Comet e Donner, voi due sembrate sempre tranquilli, ma fomentate tutti a fare cabrate azzardate e va sempre a finire che perdo i pacchi per strada. Quindi, vedete di non rompere le scatole!» I due animali annuirono mestamente, poi si scambiarono un'occhiata d'intesa che non prometteva nulla di buono

Cupid, un'altra renna, iniziò a scavare nella neve con uno zoccolo. «Tu!» disse Babbo Natale, «guarda che ce n'è anche per te. Devi piantarla di sbirciare tutte le coppiette appartate che si scambiano regali piccanti, il tuo nome non deve indurti in tali riprovevoli tentazioni!»

Cupid mosse il testone in un cenno d'assenso.

«Blitzen, tu sei quello che vuole sempre andare troppo in fretta. Sai che odio prendere le multe per eccesso di velocità! Sono salate e mi costano una fortuna!» Blitzen continuò a ruminare come nulla fosse.

«Rudolph» andò avanti Babbo Natale, «tu, con il tuo naso rosso e luminoso, dovresti fare in modo di illuminare il percorso anche attraverso le tempeste di neve, quindi piantala con quella battuta sull'aver finito le batterie, sono vent'anni che non fa più ridere. Così come non è più divertente perdersi nei posti più impensati.»

Rudolph fece baluginare il suo nasone luminoso.

«Bene, credo di avervi fatto tutte le raccomandazioni del caso.» Le renne non lo cagarono di striscio, continuando a gironzolare nel recinto. Babbo Natale sospirò per l'ennesima volta e scosse il capo. «Sono troppo vecchio per questo lavoro» borbottò rientrando nella sua casa, adiacente la fabbrica di giocattoli.


Si sedette alla scrivania. Aveva ancora le letterine più granose da smaltire, quelle che ormai arrivavano solo per e@mail.

“Caro Babbo Natale,

vorrei una sorellina, un videogioco e, se ti rimanesse un iPhone (ma ultimo modello, ci tengo) sarei il bambino più felice del mondo. Se devi scegliere fra la sorellina e l'iPhone, preferisco l'ultimo, la cosa della sorellina l'ho inserita solo perché sospetto che la mamma mi controlli la corrispondenza. Ehi, mamy, se leggi fatti gli affari tuoi, guarda che lo so che la sorellina dovreste farla tu e papà e che di certo Babbo Natale non può mettersi lì a convincere papà a fare le porcherie con te! Voglio l'iPhone!

Grazie di tutto, Babbo Natale, ti farò trovare i biscotti sul tavolo della sala da pranzo, sempre che non se li mangi quel buono a nulla di papà invece di fare le porcherie con la mamma.

Felice Nontanto”

Babbo Natale si prese la testa fra le mani: quei regali tecnologici mettevano sempre in crisi la sezione ingegneria elfica.

Passò alla seguente.

“Caro Babbo Natale,

x Ntl, vorrei la PS4 Pro, con Assassin's Creed, xché, cms sn anni ke lo kiedo o roba simile ma la mam nn vuole.

Cmq, NTP, kuello ke mi porti va bene, xò okkio che il gioco sia kompatibile kn la consolle. E basta con sti Sapientino che mi sono rotto.

Grazie, TVTB

Vola in fretta ke amici mi vogliono sfidare la mattina del 25.

Franco Sparatutto.”

Babbo Natale si tolse gli occhialini tondi, li ripulì e tornò a indossarli. Niente: la mail era sempre la stessa. Schiacciò CTRL+ALT+XMAS, credendo che il traduttore universale avesse fatto cilecca. Invece la lettera non cambiava. Lui non riusciva a capirci quasi nulla. Si appuntò di portare al bambino un dizionario di italiano. Poi chiamò un elfo e si fece tradurre la letterina, parola per parola.

Dopo, fu la volta di una mail alquanto stramba.

“Ehi, sono Ilaria dal bagno. Non è il mio cognome vero ma ti scrivo questa mail dal cesso. La mamma mi ha costretta a scriverti una letterina sulla carta (roba da matti) e ha voluto aiutarmi, e cioè indurmi a chiedere le cose che desidera lei. Ascoltami bene, perché ho pochissimo tempo, non è vero che voglio il dolce forno, i pantaloni nuovi per la scuola e quelle cagate là, voglio il libro di cinquanta sfumature. Va bene in qualsiasi colore. La mamma non vuole che lo legga ma lei ce l'ha e lo nasconde non so dove. Se è così prezioso e lo voglio anche io! Se puoi farmi mettere l'autografo da Christian Grey, meglio. Non so chi sia questo tipo, ma la mamma e le sue amiche dicono che lo leccherebbero da capo a piedi, quindi credo che sia dolcissimo e anche dietetico, dal momento che quelle sono sempre a dieta. Morirebbero d'invidia per la sua firma sul libro.

Grazie! Non posso firmare la lettera perché la mamma è incredibilmente furba, ma immagino che dal mittente capirai tutto. Dopo che l'hai letta cancellala, la mamma è DAVVERO furba.

Ilaria dal bagno.”

Babbo Natale era sempre più sconcertato, ma cos'avevano i bambini moderni? Perché i tempi in cui chiedevano case di bambola, orsacchiotti e costruzioni erano finiti?

Lasciò le letterine per andare in cucina a prepararsi una cioccolata calda con la panna.

Proprio mentre stava aggiungendo la quarta cucchiaiata di zucchero all'enorme tazza fumante, che sprigionava un aroma delizioso, sentì una voce urlare: «Cosa stai facendo?»

L'uomo trasalì, sbarrò gli occhi e si voltò, la tazza gli tremolava fra le manone. Lì, davanti a lui c'era sua moglie, la Babbiona, con le mani sui fianchi e un'espressione incazzosissima.

«Non vedi che panza che hai? Lo sai che hai i trigliceridi più alti della stella polare? Lo sai quante calorie ci sono in quella tazza?»

Lui abbassò gli occhi, sentendosi colpevolissimo e si strinse nelle spalle.

«Ora vanno di moda gli addominali scolpiti, quella panza è out!» fece presente lei, con il tatto di un velociraptor malmostoso.

Oramai anche sua moglie parlava come i ragazzini fulminati che gli scrivevano e Babbo Natale si sentì abbattuto come non mai. Posò la tazza.

«Beviti un centrifugato di verdure, invece» tuonò lei.

Ma a Babbo Natale i centrifugati di verdura facevano schifissimo, quindi fece per andarsene: odiava litigare con lei prima di Natale. Soprattutto visto che l'anno prima, per errore, era stato fotografato con una pornostar sulle ginocchia. Lui non se ne era neppure accorto, con tutti quei ragazzini urlanti attorno, ma la tizia lo aveva taggato su Facebook e la moglie gli aveva fatto una scenata minacciandolo di tradirlo con il primo elfo a disposizione e di renderlo più cornuto delle renne. Ramificato proprio.

La Babbiona lo agguantò per una manica. «E mi raccomando, la Notte di Natale, quando torni, non fermarti alla Birreria Sovrannaturale che poi lo vengo a sapere! Non farmi incazzare, altrimenti vado col primo elfo che trovo.»

«Lo so.»

«Cosa sai?»

«Che non vedi l'ora di tradirmi con un elfo qualsiasi, che poi non è uno qualsiasi, ti piace quello biondino... vuoi farti il tox box, xbox, detox... o come porco pupazzo di neve si dica!»

«Toy Boy!» esclamò lei piccata.

«Quella roba lì!» sbottò lui esasperato.

Lei lasciò la cucina con aria altezzosa e Babbo Natale si sentì tristissimo. Si domandò se avesse tenuto il contatto Facebook di quella pornostar (s)vestita da pastorella... poi accantonò l'idea.

Il suo matrimonio si era ridotto alla zuffa di due lottatori indefessi di giorno e all'affiatamento di due russatori - altrettanto indefessi - di notte.

E poi la Notte di Natale gli metteva l'ansia: c'erano mille permessi da chiedere, milioni di cose da organizzare, quelle renne riottose da tenere a bada e... si sentiva stanchissimo e vecchio. Si guardò la panciona rossa e provò a tenerla indietro, trattenendo il fiato. Diventò cianotico e per poco non si soffocò.

A quel punto, scorse un manipolo di elfi: lo guardavano ridacchiando e c'era pure quel maledetto biondino. «Tornate al lavoro!» ordinò Babbo Natale, sentendosi più umiliato che mai. Il chiacchiericcio di quelle creature così snelle, rapide e dall'aspetto perennemente giovanile, mai come ora, lo mandava in bestia.

Poi ripensò al reparto “miracoli incrediiibbbbili”. Quello addetto a esaudire i desideri più improbabili. Lì lavoravano anche alcuni goblin - compagni di bevute epiche - dall'ineffabile intelligenza. Babbo Natale Inoltrava a quella sezione lettere con richieste impossibili e, alcune volte, funzionava.

Per esempio, una bimba aveva chiesto, anni prima, che il padre (un cesso veramente pauroso) si trovasse una fidanzata così che la smettesse di essere depresso. E ci erano riusciti: gli avevano trovata una ragazza stupenda, che era anche la maestra della bimba. Poi c'erano state innumerevoli guarigioni miracolose e anche il caso di quel bimbo che aveva chiesto di diventare un grandissimo calciatore, da grande, nonostante fosse una schiappa e aveva funzionato. Tant'è che ora guadagnava miliononi come nulla fosse.

Babbo Natale socchiuse gli occhi, nel destro balenò un luccichio divertito e poi andò dritto al computer, aprì il programma di posta e scrisse:

“Caro Babbo Natale,

vorrei essere figo come Magic Mike, così che mia moglie la smetta di correre dietro agli elfi...”

Cancellò l'ultima parola: era troppo svilente e gli elfi lo avrebbero preso in giro suppergiù per sei lustri.

“... agli altri. Vorrei avere gli addominali a tartaruga ed essere giovane e bellissimo. Perché questa storia del vecchio panciuto, francamente, è superata. Oltretutto un vecchio panciuto e barbuto, con dei bambini in braccio, fa molto maniaco pervertito e mi sono già beccato qualche denuncia. Le mamme mi guardano sempre male. Vorrei essere anche sexy come Cristian Day, no Grey, insomma quella roba dove sbavano. Cinquanta sbavature! Non mi sono mai chiesto niente, nemmeno da bambino, perché mio nonno era un rompicoglioni troppo ligio al dovere – tranne quella volta, anni fa, quando ho chiesto una slitta nuova col riscaldamento – e ora vorrei questo.

Firmato io, me in persona, Babbo Natale.”

Poi si auto inviò la lettera senza alcun ripensamento e la inoltrò immediatamente al reparto “miracoli incredibbbbili”. Un po' si vergognò, sentendosi babbo, ma gli venne in mente una pubblicità che in cui qualcuno cantava, su una struggente melodia: “A Natale puoi... fare quello che non puoi fare mai...” e si tranquillizzò, pur restando in trepidante attesa, proprio come milioni di miliardi di miliononi di bambini. Quei cagatutto che lo stressavano con richieste assurde, insomma.

La Notte di Natale, Babbo Natale somigliava a uno strano miscuglio fra Channing Tatum e Jamie Dornan, ma ancora più fighissimerrimissimo. Era felicissimo! (Il reparto funzionava a meraviglia, chiaramente!) Si autoproclamò Christmas Magic Grey, salì sulla slitta a torso nudo e a mento alto, ignorando le occhiate stralunate delle renne. Il naso di Rudolph diventò a luci rosse.

Proprio mentre si stava per librare in alto, pronto a stagliarsi con la slitta sullo sfondo della notte trapunta di stelle, la Babbiona urlò: «Torna presto che ho un completino intimo bordato in pelliccia ecologica che non vedo l'ora di farmi strappare di dosso!»

Lui ridacchio, ma non tipo “oh-oh-oh” bensì più sul genere “Ah-ha, yessa, baby!”

Le riservò un'occhiata ammiccante e partì.

Si sentiva davvero faigo!.

Appena fu in quota, si scattò un selfie con l'iPhone di Felice Nontanto e lo postò su Facebook, specificando di essersi autoproclamato Christmas Magic Grey.

Piovvero i like come se non ci fosse un domani: cuoricini di tutti i colori e anche le richieste di amicizia da parte di ragazze che non erano più bambine da un pezzo. E chiedevano cose stranissime... più che altro diciamo... prestazioni. Lui era stralusingato! Ecco come andava andesso il mondo!

Quando giunse in quel di Verona, ormai non faceva che ricevere messaggi licenziosi, pure la pornostar gli aveva scritto... e COSA aveva scritto!

Ma a quel punto, udì un urlo belluino: «GABRIEEEEELEEEEEEE! C'è... Babbo Natale! Non vado l'A&O (senza preposizione semplice, ndt) resto qua ad aspettare che scenda dal camino! E SPEGNI IL FUOCO!»

Abbassò lo sguardo e venne fulminato dalla spaventosa visione di un gambaletto contenitivo, contornato da irresistibili vene varicose su stivaletti neri.

Dasher e Dancer scagazzarono, fu inevitabile!

Christmas Magic Grey sentì il bisogno impellente di coprirsi gli addominali e anche la faccia, e sfrecciò via andando subito a fare le consegne più urgenti.

Forse quella storia dell'essere sexy aveva dei lati negativi. Tuttavia, proprio per testarli, si perfino in un night club dove una povera orfanella lo attendeva speranzosa di ricevere nuovi regali. Rimase lì a lungo... a fare compagnia a tutte quelle gentili signorine che si occupavano dell'orfanella. Che però doveva essere sulla trentina, a dire il vero. Lui tracannò bicchieri colme di sostanze con le bollicine. Non contenevano panna o cioccolato, aveva controllato, la cara Babbiona non avrebbe avuto nulla da ridire!

Dopodiché, si affrettò ad andare a consegnare l'iPhone a Felice Nontanto, in modo da non cedere alla tentazione di continuare a farsi selfie. Scese dal camino (era più facile infilarsi ora che era snello e prestante), ma quando si ritrovò in sala vide la mamma di Felice Nontanto, ovvero la signora Serena Nontanto,. Era in abiti discinti, in attesa del marito che... chissà dov'era! Quella donna era magnifica e, non appena lo vide, gli si buttò addosso, infilandogli le mani ovunque. Voleva arrivare al pacco... forse per controllare l'iPhone destinato al figlio, vai a sapere!

Christian Magic Grey, a quel punto, decise che Felice Nontanto avrebbe avuto una sorellina e non l'iPhone, e subito si mise all'opera. (Era MOOOOLTO più facile infilarsi ora che era snello e prestante!!) Quando terminò, la signora Serena Nontanto era Serenissima e non poco! E lui si tenne l'iPhone, felice e soddisfatto. Aveva donato qualcosa di prezioso a una famiglia! Altroché telefonini!

Le consegne furono un po' improvvisate; a causa della sbornia commise qualche piccolo errore... ma “a Natale puoi”... e quindi, chissenefregava?!

Per esempio, consegnò a quella coi gambaletti assassini (si era scordato il nome) un vibratore al posto di un frullatore. Lei gli scriveva lettere fin da quando era bambina e – per tutti i campanellini – non aveva mai smesso. Fortunatamente, Babbo Natale riuscì ad attendere che dormisse, quindii depositò il dono sotto all'albero decorato con i centrini di Burano e le palle di vetro di Murano, in sala. Quello prese a vibrare appena Magic Christmas Grey si arrampicò nel camino, lesto come un furetto. L'anziana si svegliò di soprassalto e corse in sala. «GABRIEEEEEEEEEEEEEEELE! C'è un pacchetto che trema! Avrà freddo?»

Il consorte, svegliato nel cuore della notte da quell'urlo perforante, si sentì girare vorticosamente le balle e le rispose male. «Mettitelo mettitelo nel **** se ha freddo!»

Fu una lunga e soddisfacente notte per lei, diamine, quei frullatori moderni avevano un sacco di funzioni!

Fu una lunga notte anche Christmas Magic Grey (e anche per la Babbiona Natala!) Lui pPensò che essere fighi fosse bello ma anche molto, molto complicato – e stancante.

Da un grande manzismo derivano troppi casini, si ritrovò a considerare.

E iniziò a valutare di tornare com'era prima, del resto era un'icona mondiale, perché svilirsi diventando un uomo oggetto?

Il sorriso delle ragazze del Night Club e della signora Nontanto glielo ricordò e lui pensò che sarebbe rimasto così ancora per un po', a svilirsi, giusto il tempo di fare rosicare gli elfi:quindi per una ventina d'anni o giù di lì.

Oh, mi raccomando, quest'anno aspettate anche voi Christmas Magic Grey, che non si sa mai. E per la Befena, appendete gambaletti come se non ci fosse un domani!

Buon Natale a Tutti!

Merry Xmas and sexy new year!

(OCCHIO AI FRULLATORI!)

© Mirta Drake 2017



Aspettative e realtà

 

Laura si bloccò sgranando gli occhioni blu dinanzi a una vetrina del centro commerciale e afferrò il fidanzato per un braccio.

«È stupendo! Lo vedi, amore?» mormorò senza staccare gli occhi dal braccialetto esposto fra neve finta e svariate decorazioni natalizie.

«Mh. Sì, sì, bellissimo» rispose il suddetto amore, continuando a seguire il fantacalcio dal cellulare, senza cagare minimamente la fidanzata.

«No, Ivan, guardalo lì in vetrina, guardalo davvero!» lo incitò lei con una punta di nervosismo nella voce.

Lui sollevò un istante lo sguardo verso la vetrina e annuì, continuando chiaramente a pensare agli affari suoi, poi tornò a smanettare sul telefono. «Fantastico, è quello che vuoi per Natale, vero?»

«Perspicace» rispose lei mentre l'attenzione di Ivan stava già scemando. L'aroma di mandorle tostate permeava l'aria e chissà perché, ora le pareva fastidiosa.

«Dai, muoviti Laura. Dobbiamo ancora comprare i regali per i nostri amici, e stasera abbiamo il sushi proprio con loro.»

«Pandora, te la ricordi almeno la marca? Che poi dici sempre a tutti che sei diventato matto per trovarmi il regalo perfetto, e sai perché diventi matto a cercarlo? Perché non mi dai retta. Tu non mi ascolti mai. In effetti, mi sembra sempre di parlare da sola. Come quella volta che ti ho fatto la peperonata con la salsiccia e l'hai mangiata guardando la partita, senza nemmeno dirmi se era buona. Ti era piaciuta, almeno? Non mi ascolti neanche quando ti racconto cosa mi dice la mia amica Katy, o dei risultati scolastici di mia sorella... mi domando perché ti parlo ancora, in effetti.»

«Buona» disse Ivan infilandosi finalmente il cellulare in tasca.

Le gote di Laura diventarono di fuoco per la rabbia, la ragazza fece un passo avanti e gli si parò dinanzi, le mani sui fianchi, mentre dietro di lei passava uno dei classici trenini che scarrozzano rumorosamente in giro i bambini, nei centri commerciali.

«Adesso mi dici pure di stare buona? Ma come ti permetti? Se lo fai ancora io...»

Ivan sorrise, quel suo sorriso irresistibile e sbarazzino, da gran bastardo, lo stesso che aveva fatto innamorare Laura, più di cinque anni prima. «Mi riferivo alla peperonata, amore.»

Lei abbassò la testa sconsolata, incurvando le spalle. «E me lo dici dopo tre mesi?»

Ivan si spostò il ciuffo castano dagli occhi. «Me lo hai chiesto solo adesso.»

«Sì, ma...»

«Se non mi fosse piaciuta non l'avrei mangiata, no?»

La sua logica inattaccabile attaccava, eccome, i nervi di Laura. Tuttavia, tornò a camminare al fianco del fidanzato. Poco dopo, mentre lui si voltava a guardare una tipa appariscente che ancheggiava su tacchi vertiginosi strizzata in una minigonna altrettanto vertiginosa, Laura lo strattonò. «Almeno hai capito cosa vorrei per Natale?»

«Non la stavo guardando!» disse immediatamente Ivan riscuotendosi. «È solo che... l'avevo scambiata per una che veniva a scuola con me!»

Lei sospirò. «Sì, che la stavi guardando, ma ormai mi sono abituata. Non ci faccio più caso. Invece, hai capito o no cosa voglio per Natale?» C'erano delle note di sconforto nel suo tono... ma si confondevano con quelle di campane lontane.

Ivan sorrise di nuovo e disse in un soffio: «Certo: un pandoro!» E prima che Laura potesse protestare la baciò fino a toglierle il fiato e anche un po' la rabbia. Ma non del tutto.

Acquistarono i regali e poi si affrettarono verso l'auto. Stava iniziando a scendere la neve e c'era quell'atmosfera ovattata che rende magici i giorni pre-natalizi, anche quelli delle fidanzate sull'orlo di una crisi di nervi. C'erano anche le classiche canzoni di Natale, provenienti dal centro commerciale, a rendere il momento ancora più romantico. “All I Want for Christmas is You”, cantava Mariah Carey.

«Scusami se sono stata insopportabile» mormorò Laura sorridendo a Ivan, mentre sentiva i fiocchi di neve depositarsi sulle guance. Era convinta che fosse un momento troppo bello per sprecarlo con sciocche recriminazioni o seghe mentali, che dir si voglia.

Lui scosse il capo e un lampo di ironia gli attraversò lo sguardo. «Non fa niente, tesoro: lo sei sempre, mi sono abituato.»

«Bastardo!» esclamò Laura, entrando in auto per poi sbattere violentemente lo sportello. Il gelo invernale si stava facendo strada anche nel suo cuore, non solo sulla carrozzeria dell'auto e sul parcheggio ormai imbiancato.

Ivan rimase un secondo a fissare le luci colorate, fra la neve, mentre Mariah continuava a cantare in lontananza. Prima di salire in macchina sorrise e mormorò fra sé: «Dovresti essere abituata anche tu».

L'asfalto innevato correva sotto alle gomme dell'auto come una lingua troppo lunga, in bianco e nero, mentre rientravano in città. A un certo punto si fermarono a un semaforo: Laura vide un cartellone pubblicitario dove un fotomodello (o manzo che dir si voglia) con un discinto costume da Babbo Natale offriva un pacchetto rosso (che sarebbe anche potuto essere il bracciale che lei tanto desiderava) a una ragazza. Il tizio aveva i classici addominali scolpiti, tuuuuuutti tartarugati, un'aria seducente e sexy, e anche un taglio di capelli all'ultima moda.

Laura guardò Ivan che portava lo stesso taglio da quando lo conosceva, e che – lo sapeva bene – non aveva gli addominali scolpiti. (Non che la peperonata con salsiccia aiutasse, in tal senso.) E ripensò a come la ignorava facendola sempre arrabbiare. Sospirò ancora una volta e gli disse: «Tu un roba simile non la faresti mai, per me!» Indicò il cartellone.

Ivan guardò la pubblicità, poi Laura, poi di nuovo la pubblicità e scoppiò a ridere a crepapelle. «Ma come...» Non riusciva neppure a parlare per quanto rideva. «Come cazzarola ti viene in mente una roba simile?»

Il semaforo diventò verde e Ivan ripartì, mentre Laura continuava a pensare al fotomanzomodello.

«Sarebbe così romantico!» continuò lei.

«Sarebbe ridicolo e finto» rispose Ivan senza riuscire a smettere di ridere. «Io non ho certo il fisico di quello là! Sarei grottesco, e tu racconteresti a Katy e a tua sorella di quanto sono stato stupido a provare a farlo.» Sulle ultime parole diventò serio.

«Non capisci niente!» sbraitò Laura. Gli occhi le bruciavano. Sapeva che, se si fosse messa a piangere, avrebbe fatto la figura della sciocca. Si sentiva già stupidissima, solo per avergli confessato quel desiderio, e anche quello del bracciale. In un impeto di sconforto, pensò che il Natale fosse stato creato apposta per far litigare le coppie che già stavano passando un periodo di lieve crisi.

Crisi.

Crisi.

Crisi.

Detestava l'idea stessa che fossero in crisi e un po' anche la parola che suonava come qualcosa di stridente, come il suono che potrebbe emettere un insetto fastidioso.

Niente, tirò fuori i Kleenex, tamponandosi gli occhi.

«Che fai? Piangi perché non mi vestirò come un pirla per darti retta?»

«È la neve, cioè il freddo, voglio dire... il riscaldamento della tua maledetta macchina! Mi fa lacrimare.»

Ivan sospirò. «Dopo vedi come piangi con il wasabi, allora!»

Laura si strinse nelle spalle, prese il cellulare e iniziò a messaggiare con Katy, la sua migliore amica, lamentandosi di quanto fosse insensibile Ivan. Katy le rispose subito iniziando a lagnarsi di quanto fosse triste non avere un fidanzato a Natale. La loro conversazione in chat durò molto, molto a lungo: forse perché si scrivevano di quanto fossero insopportabili gli uomini e l'argomento era articolatissimo. Intanto Ivan guidava districandosi fra il traffico e il nevischio, ascoltando odiosi brani natalizi alla radio.

Durante la serata con gli amici, i due non fecero altro che punzecchiarsi con commenti acidi e Katy, che pareva sempre incavolata con il genere maschile, non perse occasione per dare man forte all'amica. Forse il suo comportamento era opinabile, ma non voleva davvero che Laura e Ivan litigassero (ancora) o si lasciassero, piuttosto desiderava avere una compagna di sfoghi...

Quella sera, Ivan e Laura, nel letto che condividevano da tre anni ormai, si girarono dandosi la schiena, senza nemmeno augurarsi la buona notte.

I giorni successivi, i due furono presi dai vari impegni che precedono le feste, e litigarono anche per il pranzo di Natale: Ivan pretendeva che andassero, per una volta, a pranzo da suoi genitori e a cena da quelli di Laura, ma lei si rifiutava di sconvolgere la tradizione a cui tanto teneva la madre.

«Non sono il tuo schiavo, non faccio tutto quello che vuoi a un tuo schiocco di dita!» urlò Ivan.

«E io non sono disposta ad accettare sempre i tuoi comportamenti da bastardo!» strillò lei di rimando, pentendosene subito dopo. Ivan si versò un goccetto di whisky e lo tracannò senza guardarla. Dieci minuti dopo, uscì sbattendo la porta.

La vigilia di Natale, nel pomeriggio, Laura andò a fare gli ultimi acquisti da sola, e si soffermò a guardare un cartellone pubblicitario identico a quello che aveva visto insieme a Ivan. Sullo sfondo c'era un cielo terso, nonostante la neve finta della foto, e tutto sembrava perfetto. Fin troppo. Comunque, stavolta, non si fece distrarre dagli addominali del fotomanzomodello, ma osservò bene la ragazza. Era sorridente, vestita in modo elegante, sembrava felice. Molto.

Lei non era così da un pezzo. Si sentì in colpa: gli attriti con Ivan le facevano venire un gran mal di stomaco (e forse anche le rughe) e alla fine la facevano risultare indisponente e antipatica. Come faceva Ivan ad amarla ancora? Entrò in un negozio e comprò un vestitino sexy, viola, con le paillettes, che sarebbe potuto andare bene per Capodanno, poi fu la volta delle calze autoreggenti e di un completo intimo in tinta con l'abito. Non si dimenticò di scegliere anche una buona crema antirughe. Infine, acquistò in un supermarket il necessario per cucinare una cenetta deliziosa.

Ivan e Laura trascorrevano sempre da soli la sera della Vigilia, un momento d'intimità tutto loro, prima di essere travolti dalle rispettive famiglie, il giorno dopo.

Laura tornò a casa e si mise subito ai fornelli. Poco dopo si fece un bagno, si cosparse di olio idratante/rilassante/profumante/glitterante/sensualizzante e quelchevoletecosizzante, e si truccò con cura, sistemandosi adeguatamente i capelli.

Continuava a pensare di dover cambiare l'atteggiamento che aveva con Ivan. Forse era lei a snervarlo a renderlo un bastardo per legittima difesa. Seppure le chiacchiere con Katy l'avessero spesso indotta a credere che lui fosse insensibile e distratto, capì di non doversi più lasciare influenzare dalle esperienze negative dell'amica in fatto di uomini. Ora, Laura voleva solo provare ad ascoltare il proprio cuore e lasciare da parte tutto il resto.

Preparò il tavolo con una bella tovaglia rossa, accese le candele alla cannella, controllò tre volte le lasagne. Erano già le otto di sera.

Alle otto e quaranta iniziò a sentirsi nervosa.

Alle nove si preoccupò: e se Ivan avesse avuto in incidente? Continuava a nevicare.

Lo chiamò sul cellulare, ma era irraggiungibile.

Laura si tolse i tacchi e iniziò a passeggiare nervosamente per la casa.

Alle nove e un quarto lui la chiamò e Laura, riconoscendo la suoneria, corse a rispondere, scivolando sul parquet e rischiando di cadere a pelle d'orso e/o di giocarsi una caviglia. «Pronto!»

«Ciao, sono io. Scusami, ma stasera non torno a cena. Ho avuto un imprevisto, ho incontrato un amico che non vedevo da tempo e...»

Laura sentì una stretta allo stomaco, sotto il bombardamento incessante di rabbia, delusione e tristessa, ma a farla da padrona era la gelosia. Presto, scese su di lei come una coltre verdastra. Ivan Aveva un'altra, ecco perché era sempre così distante, altroché fantacalcio! E avrebbe passato la vigilia con una stronza che magari somigliava alla tipa della pubblicità, mentre a lei quel vestitino, a dire il vero, segnava un po' i fianchi. Aveva messo su qualche chilo, negli ultimi tempi.

«Ho capito» disse brusca. Poi si ricordò che si era ripromessa di mostrarsi meno aggressiva e, nonostante il pessimo stato d'animo, si sforzò di aggiungere: «Non fa niente, non c'è problema». Tuttavia, non suonò comprensiva come avrebbe voluto.

Appena chiuse la chiamata spense le candele e le mise via, poco dopo, digrignando i denti, prese le lasagne e le gettò nella spazzatura, poi fu la volta del dolce... ma andò diversamente con il vino. Iniziò a trangugiarlo a canna, mentre riponeva nei posti più impensati piatti, tovaglie, bicchieri e tutto il resto. Troppo presa dalle paranoie per farci caso.

Infilò la tovaglia in frigorifero, i piatti nel forno e lanciò i bicchieri nel lavandino. Andarono in pezzi. I tovaglioli di lino incontrarono il destino peggiore: Laura li gettò nel cesso.

Era fuori di sé e, complice il vino, iniziò a borbottare da sola.

«E io, cretina, che gli avevo anche preso un regalo favoloso: il televisore nuovo per guardarsi quelle dannatissime partite!»

Si sedette sul divano, ormai i capelli erano un groviglio a furia di passarci le mani. «E avevo anche preparato le lasagne!» Un altro sorso. «E lui chissà dov'è! Magari con una delle tipe che si gira sempre a guardare, il bastardello.»

Alla sola idea balzò in piedi e si trattenne dall'urlare solo per evitare di spaventare i vicini e di ritrovarsi una pattuglia della polizia in casa.

«Lo odio, lo odio e non so perché sono rimasta con lui tanto a lungo!» Iniziò a piangere, già rispondendosi da sola: perché lo amava ed era la quella la cosa più tremenda, quella più dolorosa. La malinconia per il “noi” che erano stati un tempo: allegri spensierati, uniti, complici.

Mancavano tre quarti d'ora, circa, alla mezzanotte. Sferrò un calcio all'albero di Natale e una palla cadde a terra, rotolando... non si ruppe nemmeno, quasi anche lei volesse ignorare il suo sfogo.

Laura sbuffò, lasciò la bottiglia vuota sul divano e si trascinò in camera senza neppure cambiarsi, poi si rintanò sotto il piumone e si addormentò piangendo.

Fu svegliata dal tintinnio di un campanellino. Si tirò su a sedere e si sfregò gli occhi, facendo scempio del mascara scintillante che aveva comprato apposta per quella serata. Ora le scintillavano di certo anche le occhiaie.

Nella penombra, illuminato solo dalla luce proveniente della sala, c'era... Babbo Natale!

«Ma... cosa?»

«Oh-oh-oh!» disse Babbo Natale. «È stata dura passare dal camino!»

«Non... non abbiamo un camino» rispose Laura ancora un po' stordita dal vino e dal brusco risveglio.

«Appunto!» fece presente Babbo Natale scuotendo il capo.

Poi partirono le note della canzone natalizia di Mariah Carey e Babbo Natale iniziò a spogliarsi lentamente. Si slacciò la giacca rossa, bordata di “vero finto” pelo, rivelando un po' di panzetta. A quel punto, dinanzi al sorriso di Laura, fece spallucce e mormorò: «Colpa della tua peperonata!»

Laura ridacchiò e Babbo Natale si tolse la barba finta, lanciandogliela. Lei la afferrò al volo proprio mentre Ivan si liberava del berretto rosso, adornato da un campanellino, e le si avvicinava. Le calcò in testa il berretto e le sorrise. «È stata dura trovare un costume simile all'ultimo minuto.»

«Tu fai sempre le cose all'ultimo» mormorò affettuosamente Laura, il cuore che le scoppiava nel petto.

«Non tutte, ma come vedi ci riesco sempre» rispose lui. Poi occhieggiò le paillettes del vestito e fece una smorfia. «Ti eri fatta bella per me?»

«No, per Babbo Natale!»

Ivan eruppe in una risata. «Le lasagne erano buone!» disse facendole l'occhiolino.

«Non dirmi che le hai ripescate dalla spazzatura! Non bacerò quella bocca che...»

E invece, quando Ivan le si avvicinò ancor più, baciò proprio quella bocca che... ancora e ancora, al culmine della gioia, finché lui non le mise fra le mani una scatola.

Laura si augurò di avere visto male e si allungò per accendere l'abat-jour. E invece no: era proprio la scatola di un pandoro!

Tornò seria. E frustrata. E pure incavolata come una iena, a dire il vero.

«È quello che volevi, no? Me lo hai detto al centro commerciale, quando abbiamo litigato» commentò Ivan, un po' imbronciato.

Laura sentì la rabbia scorrerle nelle vene, tuttavia la tenne a bada, del resto Ivan aveva fatto molto per lei, vestendosi da Babbo Natale, magari si sarebbe dovuta accontentare. E soprattutto, era chiaro che non aveva affatto un'altra, faceva tutto parte della messinscena, perché il modo in cui si erano baciati era inequivocabile. Forse era solo un po' duro di comprendonio, però almeno si era impegnato. E poi c'era quella storia che lo amava... e se ne era resa conto quando l'ipotesi che lui avesse un'altra l'aveva praticamente devastata – insieme al vino.

«Sì, sì» disse facendo di tutto per mascherare il disappunto e non rovinare tutto.

Fu allora che Ivan scoppiò a ridere. «Non lo assaggi?»

«Adesso?»

Lui annuì.

Laura aprì la scatola, dentro c'erano due pacchetti numerati: 1 e 2. Scartò il primo con ansia crescente. C'era il braccialetto che tanto voleva e si sentì sull'orlo delle lacrime. «Allora mi ascolti!»

«Sempre. E ti amo anche quando sei insopportabile, forse ancora di più.»

Lei sorrise e gli diede un bacio sul naso.

«Apri l'altro.»

Laura obbedì, il pacchetto conteneva un anello con un diamante piccolo ma dal taglio tipico degli anni '20, proprio del genere che lei aveva sempre desiderato ed era convinta che lo sapesse solo Katy.

«Vuoi sposarmi?»

Le parve di sentire il suono dei fiocchi di neve che cadevano sul balcone, seppure fosse lieve, perché il cuore le si era fermato, in attesa della sua stessa risposta.

Sì, sì, voleva sposarlo, perché riusciva a farla incavolare meravigliosamente e solo chi ami alla follia ci riesce; perché la sopportava sempre, e solo chi ti ama alla follia può farlo; ma soprattutto perché l'aveva sempre ascoltata, magari senza darlo a vedere.

«Sì!!» Il cuore tornò a cuoricinare a tutto spiano.

Lui la baciò lasciandola senza fiato, e parole. (Finalmente!) Poi la allontanò un pochino. «Grazie per il televisore...» Laura spalancò la bocca per la sorpresa. «Ho visto dove lo avevi nascosto dieci giorni fa. Controllo sempre che tu non lasci cose nel posto sbagliato, perché, quando poi non le trovi, diventi intrattabile. E meno male che lo faccio, perché hai messo la tovaglia in frigo e i piatti nel forno e forse hai anche intasato il cesso» mormorò Ivan. «Per i bicchieri... be', pazienza, non mi erano mai piaciuti...»

«Oh, sta' zitto adesso!»

Il campanellino sul berretto calcato in testa a Laura non fece altro che tintinnare quella notte, mentre loro si amavano la neve scendeva piano, ammantando la città di magia.

“Gli amori più grandi sono magici, e lo sono proprio per le loro deliziose imperfezioni” pensò Laura mentre ormai l'alba si stava palesando. “E per le loro seducenti incomprensioni. Altrimenti sarebbero noiosi!” Ridacchiò e accarezzò Ivan che dormiva beato, con il solito taglio di capelli che gli stava bene persino nel sonno, e la giacca da Babbo Natale aperta su quell'adorabile panzetta!

 

©Mirta Drake 2017